Un paesaggio che lei conosceva fin da bambina. Anche suo padre la portava lì, per sedersi sul molo fin quando i suoi occhi non si riempivano di quell’azzurra oscillazione. Oppure fin quando l’anima andava a riposarsi in qualche oscuro buco del suo corpo, anziché svolazzare come una farfalla affamata. Le piaceva chiedere a suo padre di cosa si nutrissero le farfalle, e lui, un semplice uomo di campagna, rispondeva:
– Di un poco di aria.
A quei tempi non si poteva nemmeno pescare: il governo aveva proibito di possedere imbarcazioni perché, quasi sicuramente, invece di andare a cercare qualcosa da mangiare, sarebbero fuggiti via, lontano. E il re non poteva restare senza sudditi.
Sua madre gli insegnava a usare i tubetti di colore a olio che un tempo un aereo aveva lasciato cadere assieme ai giocattoli per i bambini. Il suo colore preferito era il blu di Prussia.
La madre dipingeva paesaggi marini dove quasi sempre appariva una amaca sostenuta da due palme, con all’interno una piccola massa scura:
– Quella sei tu, addormentata.
Diceva.
Quei quadri sereni, che da bambina le piacevano tanto, ora le apparivano spaventosi. Talvolta aveva degli incubi in cui una tempesta oscurava il cielo e spazzava via ogni cosa. Eppure l’amaca non si spostava, l’amaca con lei dentro restava immobile. E questo la faceva pensare alla morte.
Di fronte al molo lascia che i suoi ricordi evaporino. Una manina le tira il vestito e subito torna la sua afflizione: quei tre bambini. Non può regalargli i suoi dipinti o raccontare una storia per fare in modo che dimentichino. E all’improvviso le viene in mente che non possono sentirsi come lei: la vedovanza è soltanto sua.
Alcuni giorni fa ha compreso che avevano bisogno di avere una speranza. I bambini, e lei. Suo padre la portava al molo e lei avrebbe fatto la stessa cosa. Non avevano mai visto il mare, nulla di simile.
Così chiese loro di tenersi per mano e assieme uscirono per strada. Si fermò un camion e l’autista accettò di condurre quegli improvvisati passeggeri al villaggio successivo. I bambini si sporgevano sulla strada sterrata e facevano festa con qualsiasi piccola cosa; nei loro occhi scuri palpitavano stelle.
Quando si ritrovò dinanzi al mare restò immobile, con gli occhi chiusi, alta, eretta, una fiamma che la brezza non riusciva a spegnere. I lunghi capelli gli sbattevano sul volto. I bambini correvano avanti e indietro, si allontanavano e ridevano. Poi si fermarono per ascoltare il mare. Conobbero il suo silenzio e il suo canto. Non potevano immaginare la sua violenza. Lei tornava alla sua infanzia in modo dolce e gradualmente, come la lacrima che rotolava sulla sua guancia. Le farfalle. L’aria di cui si nutrivano, la domanda che riusciva sempre a trattenere: papà, chi vive d’aria?
Uno dei bambini correndo le venne incontro, le tirò il vestito. La trovò assente e girò sui talloni, come se avesse ricordato un compito importante, e riprese a correre.
Aprì gli occhi. Là, in mezzo alle onde, i gabbiani volavano in cerchio. I rapaci celesti. Forse un pesce morto al quale stavano strappando le viscere. Trattenne il respiro. Si voltò per cercare i suoi figli, i più piccoli giocavano a terra con le biglie. Il più grande se ne stava seduto sulla banchina, con i piedi penzolanti nel vuoto. Sotto di lui le onde si frangevano con calma. Il bambino aveva gli occhi fissi sullo spettacolo dei gabbiani. Affascinato, si inumidiva le labbra con la lingua.
Lei si avvicinò adagio.
– Vado a prenderti quell’uccello – indicando un gabbiano. E saltò.
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