FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 70
luglio 2025

Fame

 

C'È FAME DI...

di Armando Santarelli



La parola “fame”, nel senso della sofferenza o della morte per mancanza di cibo, ci fa male quanto la parola “guerra”. Entrambe non dovrebbero più esistere, considerato il lungo cammino della civiltà umana; invece sono ancora tra noi. La morte di bambini e adulti per fame è, in effetti, la vera assurdità del nostro tempo; lo sappiamo, proviamo vergogna e rimorso, ma quando ne parliamo e diciamo “è una responsabilità di tutti noi, anche mia”, abbiamo già alleggerito il senso di colpa che grava su chi di fame non ha mai sofferto.

La fame era presente nei racconti dei miei nonni; una fame atavica, perenne, peggiorata dalle due Guerre mondiali, ma che non portava alla morte di chi ne soffriva. La fame l’ho conosciuta anche attraverso le pagine degli scrittori che ho amato. Tre ricordi letterari mi vengono subito in mente.

Il primo è il brano di Oliver Twist che Dickens ambienta nel refettorio dell’orfanotrofio che aveva appena accolto il piccolo orfano: “Il maestro, che per l’occasione si metteva un grembiule e veniva aiutato da una o due donne, distribuiva con un mestolo le razioni di pappina, della quale a ciascun ragazzo toccava una sola scodella; non gli spettava altro, tranne che nei giorni festivi, quando gli toccavano inoltre pochi grammi di pane. Le scodelle non avevano mai bisogno di essere lavate. I ragazzi le lucidavano con i cucchiai fino a renderle di nuovo splendenti; e, dopo aver portato a termine questa operazione (che non richiedeva mai molto tempo, in quanto i cucchiai erano grandi quasi quanto le scodelle) rimanevano seduti contemplando la marmitta con occhi avidi, come se avessero potuto divorare i mattoni stessi sui quali poggiava; e nel frattempo si succhiavano, con la massima solerzia, le dita, nel tentativo di recuperare ogni possibile schizzetto di pappina che avesse potuto finirvi”.

Il secondo è il racconto di Čechov intitolato Ostriche. L’inizio della grottesca avventura gastronomica del piccolo protagonista (lo scrittore non ne indica il nome) è oltremodo doloroso per il lettore: “Non mi occorre sforzare troppo la memoria per rammentare in tutti i particolari il piovoso crepuscolo in cui stavo con mio padre in una delle popolose vie moscovite e sentivo come una strana malattia si impossessasse a poco a poco di me. Dolore, nessuno, ma le mie gambe si piegano, le parole si fermano in gola, la testa si reclina impotente da un lato… Evidentemente io sto per cadere e perdere la coscienza. Se in quei momenti fossi capitato all’ospedale i dottori avrebbero dovuto scrivere sulla mia tabella: Fames, una malattia che non esiste nei manuali di medicina”.

Il terzo è la cruda testimonianza di Varlam Šalamov nei Racconti di Kolyma: “L’aringa non la si mangia. La si lecca, e la coda a poco a poco scompare tra le dita. Restano le lische, e le si mastica con precauzione, con parsimonia, fino a che anche le lische si sciolgono e scompaiono. Poi ci si comincia a preoccupare del pane (al mattino vengono distribuiti tutti i cinquecento grammi della razione giornaliera), si strappano minuscoli pezzi, li si ficca in bocca. Il pane lo mangiano tutti subito, così nessuno potrà rubarlo e portarselo via, e comunque non si ha la forza di tenerlo per dopo. Solo non bisogna affrettarsi, non bisogna berci sopra dell’acqua, non bisogna masticare. Bisogna succhiarlo, come zucchero, come una caramella”.

La fame che debilita, la morte per inedia, l’addio alla vita più ingiusto che possa esistere. È toccato, nel corso della storia umana, a milioni e milioni di persone, e noi ne parliamo e ne scriviamo con un’enorme tristezza e una conferma dell’assurdità del destino, generoso con alcuni esseri umani, spietato con altri.
Ma oggi, alla fame che uccide nemmeno vogliamo credere più di tanto. Ci fanno vedere, spesso all’ora di pranzo o di cena, bambini con i volti sofferenti per la fame o perché gravemente malati; sono in braccio a mamme disperate, con sullo sfondo povere baracche o luoghi semidesertici. Ma mentre ci afferra il dolore per le tragiche immagini, creiamo subito le nostre difese. Che possiamo farci? Offriamo soldi a cinque-sei Enti di assistenza a livello mondiale! Inoltre, c’è la globalizzazione, ci sono le Associazioni di beneficenza, la FAO, i volontari di tutto il mondo opulento, gli aiuti umanitari delle Nazioni ricche…

Insomma – pensiamo – la fame non è più tale, al massimo c’è una sottoalimentazione, problema grave, certo, che comporta danni a volte irreversibili, ma la fame vera e propria no, quella esisteva nel secolo scorso nella regione subsahariana, nell’India, nel Pakistan, in alcuni Paesi dell’America Latina, come è esistita in Cambogia a seguito della nefasta “collettivizzazione agraria” imposta dai Khmer rossi, come è esistita in Ucraina nel 1932-1933, gli anni del terribile “Holodomor”, il genocidio per fame, causato dalle politiche agricole staliniane, che portò alla morte milioni di ucraini.

Non mancano altre considerazioni. Se le Nazioni più popolose del Pianeta, ormai tecnologicamente avanzate quasi quanto le nostre, non ricorrono a programmi di contenimento delle nascite, che cosa possono sperare? Se in alcuni Paesi africani sono in atto da decenni conflitti o vere e proprie guerre tribali che comportano il depauperamento delle risorse, degli scambi commerciali, della democrazia, delle risorse naturali, della crescita culturale delle popolazioni, cosa possiamo fare noi?
Se grazie all’ingegneria genetica è oggi possibile coltivare piante e cereali più resistenti ai parassiti, se abbiamo creato vegetali più ricchi di sostanze nutrienti, se le tecniche di coltivazione, raccolta e sfruttamento dei prodotti della terra sono note a tutti, perché non adottarle? Se in alcuni Paesi poveri, ma ricchi di risorse importanti, continuiamo a vedere dei dittatori seduti sugli scranni del Governo, invece di una classe politica giovane e preparata, che cosa si può sperare?

Queste le ragioni, gli alibi, gli scarichi di coscienza, a volte anche le verità che ci vengono in testa quando parliamo di fame nel mondo o vediamo le immagini che ci portano le tv o i social. Inutile precisare che la fame, quella che conduce alla morte di centinaia di migliaia di bambini, esiste ancora; la esorcizziamo con i pensieri che ho esposto, e mentre scorrono le immagini continuiamo a mangiare la pasta, il secondo, il dolcetto e il caffè.

Detto ciò, non voglio trasformare questo articolo in un esercizio di scrittura; abbiamo il dovere morale di chiederci, e rispondere con sincerità, a una questione che rivela molto di noi, se non tutto: dato che non soffriamo di carenze alimentari, di che cosa abbiamo fame noi, i privilegiati della Terra?

E allora io dico che abbiamo una fame non evangelica, ma tremendamente pratica, di giustizia, di vedere colmate le assurde differenze tra Nazioni opulente e regioni povere e sofferenti, tra magnati miliardari e indigenti che soffrono una condizione di assoluta minorità sociale. Abbiamo fame di pace, di umanità in tutti noi, perché siamo stufi di vedere, dall’inizio della storia, le prevaricazioni dei potenti a danno della gente comune. Abbiamo fame di verità, ovvero che il miglioramento della società sotto il profilo dell’umanità e della cultura avvenga per convinzioni razionali, per una questione di coscienza, senza la mediazione di religioni che, purtroppo, non hanno migliorato la bestia umana. Abbiamo bisogno gli uni degli altri, e quanto più possibile in condizioni di eguaglianza e di reciproco rispetto. Ma abbiamo anche bisogno di riconoscere e premiare le eccellenze, perché sono queste che ci fanno progredire in quasi tutti i settori della vita sociale.

Abbiamo fame di una vera libertà, perché non è possibile, non è giusto sentirsi continuamente spiati, influenzati, condizionati.
Abbiamo fame di quei vincoli autentici che i social non possono garantire.
Abbiamo fame di dialogo, di rapporti umani, non di abitazioni piene di cose materiali, ma dove manca la gioia di vivere.
Abbiamo fame di medicine per l’anima, che non possono venire solo dalla propria interiorità, perché un mondo caotico e cinico può scardinare qualsiasi virtù personale.
Abbiamo fame di politici onesti e preparati, ricordando che per Platone la politica è la “tecnica regia”, perché ha potere su tutte le altre attività del consorzio umano.
Abbiamo fame di relazioni umane profonde e sincere, perché se non crediamo più in Dio e nell’immortalità dell’anima, il rapporto con il prossimo durante la nostra vita diventa la cosa più importante e gratificante che possiamo perseguire dal punto di vita morale.


armando.santarelli@inwind.it