FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 70
luglio 2025

Fame

 

L'ANGOLO DI ED

a cura di Giuseppe Ierolli



Alleviavo la mia fame col Dizionario


F351-J507

She sights a Bird - she chuckles -
She flattens - then she crawls -
She runs without the look of feet -
Her eyes increase to Balls -

Her Mouth stirs - longing - hungry -
Her Teeth can hardly stand -
She leaps, but Robin leaped the first -
Ah, Pussy, of the Sand,

The Hopes so juicy ripening -
You almost bathed your Tongue -
When Bliss disclosed a hundred Wings -
And fled with every one -

    Punta un Uccello - sogghigna -
S'acquatta - poi avanza felpata -
Corre senza parvenza di piedi -
Gli occhi dilatati come Palloni -

La Bocca si eccita - bramosa - famelica -
I Denti riesce a stento a trattenere -
Si lancia, ma il Pettirosso si è lanciato per primo -
Ah, Micetta, della Sabbia,

Le Speranze così succose maturavano -
Quasi vi immergesti la Lingua -
Quando la Beatitudine tirò fuori cento Ali -
E con tutte fuggì -

La felicità è là, a portata di mano, ci sembra ormai raggiunta, ma ecco che, quasi sempre, ci sfugge, lasciandoci a bocca asciutta, come la micia che punta l'uccello, si acquatta, ha l'acquolina in bocca, trattiene i denti per non far rumore, si slancia, ormai sicura di aver conquistato la preda, che invece è più veloce di lei, sembra avere cento ali e fugge via, insieme a quella beatitudine, quella felicità perfetta, che le (ci) sembrava un frutto ormai maturo, pronto per immergerci la lingua.
Ho scelto due varianti: al quinto verso: "Her mouth stirs - longing - hungry -" al posto di "Her Jaws stir - twitching - hungry -" ("Le Mascelle si muovono - a scatti - affamate -"); al penultimo "Wings" al posto di "Toes" ("toes" significa "dita dei piedi o delle zampe", avrei potuto tradurre "piedi, zampe", ma al terzo verso già c'era "feet" e così ho preferito la variante, che fra l'altro non stona con il pettirosso che fugge via).

 

F439-J579

I had been hungry, all the Years -
My Noon had Come - to dine -
I trembling drew the Table near -
And touched the Curious Wine -

'Twas this on Tables I had seen -
When turning, hungry, Home
I looked in Windows, for the Wealth
I could not hope - for Mine -

I did not know the ample Bread -
'Twas so unlike the Crumb
The Birds and I, had often shared
In Nature's - Dining Room -

The Plenty hurt me - 'twas so new -
Myself felt ill - and odd -
As Berry - of a Mountain Bush -
Transplanted - to a Road -

Nor was I hungry - so I found
That Hunger - was a way
Of persons Outside Windows -
The entering - takes away -

    Avevo avuto fame, tutti quegli Anni -
Il mio Mezzogiorno era Giunto - per pranzare -
Mi accostai tremante alla Tavola -
E sfiorai lo Strano Vino -

Era quello che avevo visto sulle Tavole -
Quando tornando, affamata, a Casa
Guardavo attraverso le Finestre, la Ricchezza
Che non speravo - per Me -

Non conoscevo quel copioso Pane -
Così diverso dalla Briciola
Che gli Uccelli ed io, avevamo spesso condiviso
Nella Sala da Pranzo - della Natura -

L'Abbondanza mi ferì - era così nuova -
Mi sentivo male - e strana -
Come una Bacca - di un Arbusto Montano -
Trapiantata - su una Strada -

Non avevo più fame - così scoprii
Che la Fame - è la condizione
Di persone Fuori dalle Finestre -
L'entrare - la rimuove -

Una variazione sul tema del desiderio che nessun dono potrà soddisfare, così come è esplicitamente detto negli ultimi versi. Ma anche una riflessione su desideri lungamente coltivati, e lungamente non soddisfatti, che, una volta finalmente a portata di mano, sembrano causare uno stato di smarrimento, come una novità che venga a turbare il tranquillo tran tran quotidiano della bacca di un arbusto montano che si trova improvvisamente in strada, a contatto di quel mondo che magari aveva a lungo desiderato, e ora si rivela estraneo e fa paura, sconcerta (vedi "odd" alla seconda strofa).

 

F456-J652

A Prison gets to be a friend -
Between it's Ponderous face
And Our's - a Kinsmanship express -
And in it's narrow Eyes -

We come to look with gratitude
For the appointed Beam
It deal us - stated as Our food -
And hungered for - the same -

We learn to know the Planks -
That answer to Our feet -
So miserable a sound - at first -
Nor even now - so sweet -

As plashing in the Pools -
When Memory was a Boy -
But a Demurer Circuit -
A Geometric Joy -

The Posture of the Key
That interrupt the Day
To Our Endeavor - Not so real
The Check of Liberty -

As this Phantasm Steel -
Whose features - Day and Night -
Are present to us - as Our Own -
And as escapeless - quite -

The narrow Round - the Stint -
The slow exchange of Hope -
For something passiver - Content
Too steep for lookinp up -

The Liberty we knew
Avoided - like a Dream -
Too wide for any night but Heaven -
If That - indeed - redeem -

    Una Prigione diventa un'amica -
Tra la sua faccia Poderosa
E la nostra - una Parentela si manifesta -
E nei suoi stretti Occhi -

Arriviamo a guardare con gratitudine
Il Posto designato
Che ci destina - stabilito come il cibo -
E del quale abbiamo - la stessa fame -

Impariamo a conoscere il Tavolato -
Che risponde ai Nostri passi -
Un suono così misero - dapprima -
Nemmeno ora - così dolce -

Quanto lo sguazzare negli Stagni -
Quando il Ricordo era un Ragazzo -
Ma un Circuito più Discreto -
Una Geometrica Gioia -

La Posizione della Chiave
Che impedisce il Giorno
Ai Nostri Sforzi - Non così reale
Il Freno alla Libertà -

Quanto il Fantasma d'Acciaio -
Le cui fattezze - Giorno e Notte -
Sono presenti a noi - come le Nostre -
E altrettanto - senza scampo -

Lo stretto Giro - il Limite -
Il lento cambiamento della Speranza -
In qualcosa di più passivo - Appagamento
Troppo scosceso per alzare lo sguardo -

La Libertà che conosciamo
Evitata - come un Sogno -
Troppo ampio per ogni notte che non sia Cielo -
Se Quello - davvero - redime -

La prigione nella quale ci troviamo a vivere ci appare via via più amichevole, l'abitudine ci fa apparire il suo volto poderoso, così distante e incomprensibile, sempre più vicino alla nostra piccolezza. Attraverso i pochi varchi concessi ai nostri occhi, alla nostra mente, arriviamo addirittura a essere grati per quel posto, limitato e angusto, che ci destina, un posto che ci diviene familiare come la più familiare e indispensabile delle attività umane: il mangiare.
Impariamo a conoscere lo spazio in cui viviamo, a sentire l'eco dei nostri passi umani. Dapprima ci sembra un suono ben misero, rispetto a quello che la nostra mente immagina e sogna. Poi le cose cambiano, le nostre sensazioni è come se si addolcissero, pur non raggiungendo mai il dolce e nostalgico ricordo della libertà fanciullesca, quando eravamo liberi di sguazzare negli stagni della fantasia. Ora il mondo ci appare più discreto, la gioia più razionale, più vicina a una forma esatta, geometrica, che al libero sfogo dei nostri istinti e dei nostri desideri.
C'è una chiave che ha una ben definita posizione, una chiave che non ci permette di aprire liberamente, per quanti sforzi facciamo, la nostra mente. Eppure è un freno, questo, non così reale come il pensiero della morte, quel fantasma d'acciaio, impalpabile e inafferrabile ma allo stesso tempo concreto, duro e impenetrabile, che è presente in noi quanto noi stessi, non ce ne possiamo liberare tanto quanto non possiamo liberarci dal nostro io.
Impariamo così a muoverci all'interno dei limiti che ci sono concessi, nello stretto giro della nostra esistenza quotidiana. E la fantasia, la speranza, si tramuta lentamente in appagante passività; troppo scoscesa è la strada della libertà e della conoscenza perché noi si possa alzare lo sguardo e anche soltanto tentare di scorgerla.
E allora non ci rimane che desistere dal tentativo di ottenerla, questa libertà che non ci è concessa. Possiamo soltanto considerarla come un sogno, ma un sogno troppo ampio per una semplice notte mortale, un sogno che può essere riservato solo alle notti celesti. Ma ci saranno, queste notti celesti?
Stavolta le immagini sono come sempre bellissime, ma forse meno fantasiose del solito, come se fossero chiuse in quella prigione evocata nel primo verso e non riuscissero ad uscirne. Ma proprio qui sta la bellezza di questa poesia: nel senso di chiusura che riesce a esprimere, sia in ciò che dice, sia in come lo dice; una perfetta identità tra forma e contenuto.

 

F754-J728

Let Us play Yesterday -
I - the Girl at School -
You - and Eternity - the
Untold Tale -

Easing my famine
At my Lexicon -
Logarithm - had I - for Drink -
'Twas a dry Wine -

Somewhat different - must be -
Dreams tint the Sleep -
Cunning Reds of Morning
Make the Blind - leap -

Still at the Egg-life -
Chafing the Shell -
When you troubled the Ellipse -
And the Bird fell -

Manacles be dim - they say -
To the new Free -
Liberty - Commoner -
Never could - to me -

'Twas my last gratitude
When I slept - at night -
'Twas the first Miracle
Let in - with Light -

Can the Lark resume the Shell -
Easier - for the Sky -
Would'nt Bonds hurt more
Than Yesterday?

Would'nt Dungeons sorer grate
On the Man - free -
Just long enough to taste -
Then - doomed new -

God of the Manacle
As of the Free -
Take not my Liberty
Away from Me -

    Giochiamo a Ieri -
Io - Ragazza a Scuola -
Tu - e l'Eternità - la
Storia mai narrata -

Alleviavo la mia fame
Col Dizionario -
Il Logaritmo - ebbi - per Bevanda -
Era un arido Vino -

Qualcosa di diverso - dev'esserci -
I Sogni colorano il Sonno -
Gli abili Rossi del Mattino
Fanno il Cieco - sussultare -

Ancora nell'Uovo -
Sfregavo il Guscio -
Quando tu agitasti l'Ellisse -
E l'Uccello cadde -

Le manette sbiadiscono - si dice -
Per chi è Libero da poco -
La Libertà - Più comune -
Non potrebbe mai - per me -

Era il mio ultimo ringraziamento
Quando mi addormentavo - la notte -
Era il primo Miracolo
Fatto entrare - con la Luce -

Può l'Allodola ritornare al Guscio -
Più tranquilla - dal Cielo -
Non saranno i vincoli più dolorosi
Di Ieri?

Non saranno le Segrete ancor più serrate
Per l'Uomo - libero -
Solo quel tanto bastante per assaporare -
Poi - condannato di nuovo?

Dio dell'Ammanettato
Come del Libero -
Non portare la Libertà
Via da Me -

Sembra proprio che ED abbia voluto scrivere una poesia sul suo disperato desiderio di libertà, dando però allo stesso tempo la sensazione di una claustrofobica "normalità" che sembra chiudere i versi in quelle manette, vincoli, segrete che tornano continuamente. Bellissima la terza strofa con i sogni che colorano il sonno e gli abili "rossi" del mattino che fanno sussultare anche un cieco.
Inizia con uno sguardo all'indietro: giochiamo a ieri. Nel gioco, io, ancora ragazza a scuola, tu (la libertà che spingeva dentro di me) e l'eternità, una storia atemporale, che non può perciò essere narrata.
Cercavo di saziare la mia fame di sapere (una fame che non è altro che la ricerca della libertà, perché non c'è libertà senza conoscenza) con le parole, e non disdegnavo nemmeno l'arida bevanda dei numeri. Ma non ci si può accontentare di questo: oltre alla conoscenza razionale c'è anche quella che sfugge al nostro pieno controllo. Ci sono i sogni, che colorano il nostro sonno e ci permettono il lusso di sfuggire alla grigia quotidianità; e al risveglio la rossa luce del mattino, un miracolo della natura che fa sussultare anche chi non può vederlo.
La mia sete di libertà era già viva prima che nascessi: fu lei che, mentre sfregavo l'uovo in cui ero rinchiusa, lo agitò a tal punto da far uscire l'uccello che era dentro, facendolo cadere nel mondo.
L'uomo dimentica facilmente; appena liberi, ci si dimentica delle manette che fino a poco prima impedivano i nostri movimenti. Ma per la libertà, anche quella più banale, a me non succede: non potrei mai dimenticarla, anche se mi si offrisse qualsiasi cosa in cambio. Quella libertà che accompagnava l'andare a letto la notte ed era sempre lì il mattino, con quei fiotti di luce che ogni giorno ripetono il loro miracolo.
E la libertà non può essere rinchiusa in uno spazio o in un tempo determinati. L'allodola che conosce l'immenso spazio del cielo non può dimenticarlo quando torna al suo nido; colui al quale è concessa un'effimera e breve libertà, quel tanto che basta per assaporarla, sentirà ancora più gravose le sbarre che lo rinchiudono di nuovo subito dopo.
E allora, caro Dio, tu che sei il Signore di chi è libero e di chi non lo è, fa' che io sia sempre dalla parte di chi non porta le manette, non portarmi mai via il dono più prezioso che conosco: la mia libertà.
Per il quarto verso ("Untold tale", che nell'edizione Franklin è unito al terzo con la "u" iniziale minuscola) ED ha probabilmente preso spunto dal Salmo 90,9: "For all our days are passed away in thy wrath; we spend our years as a tale that is told" ("Perché tutti i nostri giorni svanirono nella tua collera; trascorriamo gli anni come una storia ormai raccontata"), citato nel Webster in una delle definizioni di "Tale". Nel versetto biblico gli anni sembrano trascorrere in un istante, come una storia ormai raccontata; nel verso dickinsoniano il "tale told" diventa "tale untold", con una negazione che trasforma l'istante in eternità.

 

F1186-J1125

Oh Sumptuous moment
Slower go
That I may gloat on thee -
'Twill never be the same to starve
Now I abundance see -
Which was to famish, then or now -
The difference of Day
Ask him unto the Gallows led -
With morning in the sky
    Oh Sontuoso istante
Rallenta
Ch'io possa cibarmi di te -
Non sarà più lo stesso aver fame
Ora che l'abbondanza vedo -
Cosa sia morir di fame, dopo o adesso -
La diversità del Giorno
Chiedi a chi al Patibolo è condotto -
Col mattino in cielo

Un istante di felicità, di appagamento, ci lascia poi un senso di vuoto, come chi è affamato e vede davanti a sé una tavola imbandita dalla quale non può prendere che una briciola. Quale differenza ci sia fra il morire prima o dopo questa sia pur fuggevole visione, in cosa è diverso il luminoso giorno dall'oscura notte, può dirlo soltanto chi si avvia al patibolo mentre il cielo si illumina degli splendenti colori della vita.
Al verso 3 "gloat" significa "guardare, fissare, con intenso desiderio o ammirazione". Credo che "cibarmi" possa rendere l'idea del desiderio di appropriarsi, anche se per poco, del "sontuoso istante", anche in relazione alle metafore successive, legate alla fame (to starve, to famish).

 

F1311-J1282

Art thou the thing I wanted?
Begone - my Tooth has grown -
Supply the minor Palate
That has not starved so long -
I tell thee while I waited
The mystery of Food
Increased till I abjured it
And dine without
Like God -
    Sei tu la cosa che volevo?
Vattene - i miei Denti sono cresciuti -
Soddisfa il Palato minore
Che non ha avuto fame così a lungo -
Sappi che mentre aspettavo
Il mistero del Cibo
Crebbe finché lo abiurai
E ceno senza
Come Dio -

Un amore che m'illudevo potesse sfamare il desiderio è arrivato a conclusione, perché, crescendo e aspettando, quel cibo tanto desiderato ha ormai perso il gusto di allora e da qual momento l'ho abolito, cenando (o tenendomi in vita) senza più bisogno di nulla che venga dal di fuori, come sa fare soltanto Dio.
Una rinuncia che appare definitiva, con momenti in cui sentimenti diversi si alternano e si intrecciano l'un l'altro: la decisione senza appello ("Begone" al verso 2; "till I abjured it" al verso 7), l'orgoglio di chi ormai si sente al di sopra di quel desiderio ("Supply the minor Palate" al verso 3), il ricordo della sofferenza patita ("That has not starved so long -" al verso 4; The mystery of Food / Increased" ai versi 6 e 7), e infine, negli ultimi due versi, la scelta ascetica che avvicina a Dio, con quel paragone estremo che sembra un ultimo guizzo d'orgoglio.

 


Le poesie di Emily Dickinson non hanno un titolo, a parte rarissime eccezioni. I numeri che le precedono si riferiscono alla numerazione attribuita nelle due edizioni critiche, curate rispettivamente da Thomas H. Johnson nel 1955 ("J") e da R. W. Franklin nel 1998 ("F").

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