FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 70
luglio 2025

Fame

 

IN VIAGGIO VERSO L’ALTROVE
Sul campo di José Javier Villarreal

di Marco Testi



Ha pienamente ragione Alessio Brandolini che nella sua introduzione parla di muri e steccati oltrepassati, ma anche di “stanze esplorate a lungo”: la poesia di José Javier Villarreal è un perenne viaggio, e d’altronde un’autentica icona – e quella dell’icona come vedremo è una dimensione ricorrente in questa poesia – della letteratura messicana, Octavio Paz, ne aveva fatto uno dei motivi d’essere poeta.
Ma non un diario poetico, né un quaderno di immagini di viaggio, se mai un passaggio interiore in cui il materiale altrimenti inerte delle notazioni itineranti viene reso vivente e coeso in una unità di prospettiva visiva, contatto con l’attimo, in un viaggio fatto di chilometri e però anche di ingresso nelle stanze più nascoste dell’io profondo.

Confronto antologico tra il prima di Mare del Nord, risalente agli Ottanta, e il quasi oggi di Campo Alaska (2012), questo Sul campo è la cifra della fusione tra fuori e dentro, ricordi e bagliori, epifanie dell’attimo e visioni abissali nell’oggetto comune che ricordano anche la metafisica di Savinio, Boccioni, Carrà o il passaggio oltre la pura oggettualità di Woolf, Joyce ed Eliot: con quest’ultimo a dominare il campo delle improvvise rivelazioni in questa raccolta, come quando nell’antica “Canzone di primavera” Villarreal scrive che “a volte la primavera è fredda e crudele” riprendendo il celebrato incipit della Waste Land eliotiana: “April is the cruellest month” con il non dichiarato, ma ostensivo, intento di sfatare, una volta per tutte, la convinzione critica del conteggio citazionale, e non della poesia come grande madre che torna a volte inconsapevolmente con le limitate umane parole.
E torna anche a dire che il sentimento non univoco è “respiro pesante delle donne dimenticate”, indicibile altrimenti. Perché, continua lo scrittore messicano, la poesia è anche dolore, desiderio non appagato, o troppo presto realizzato, come aveva – genialmente – insinuato il Somerset Maugham di Acque morte.

Lo stesso Villarreal la prende apparentemente sullo scherzo con quel “Novembre non è il mese più crudele – perlomeno Eliot non lo disse –”, mentre scorrendo le vie delle sue pagine ci si rende conto che il materiale precedente non è inerte sedimentazione, ma attiva proliferazione di senso, a partire dalle donne nei caffè parigini di Baudelaire ma anche da L’Absinthe di Degas, e passando dalle non- godute di non certissima attribuzione gozzaniana, solo per fare pochi nomi.

Solo alla fine di Mare del Nord il poeta inizia a ripercorrere il viaggio della nuova poesia, con il passaggio due-trecentesco da una parziale egemonia aristocratica all’affermazione dei valori concreti della borghesia europea: “i commercianti, i nuovi signori, iniziarono a scrivere la storia” per arrivare subito dopo alla memoria di uno dei trasgressori di quella nuova weltanschauung, François Villon che fa capolino tra angeli che giocano a dadi, il triste scenario degli impiccati, con l’ipotesi, di fantasia, della sua stessa morte per impiccagione.
Il grande rifiuto della ragione d’occidente, influenzata dai meccanismi economici, ieri come oggi, rappresentata dal ribaldo-poeta chiude dunque il libro delle origini di Villarreal.

Sono invece gli oggetti a occupare lo spazio poematico dell’ultima sua silloge, Campo Alaska: oggetti animati dalla loro empatica compenetrazione con lo sguardo umano in cui essi sembrano galleggiare nella solitudine di una stanza, con “la tovaglia che ondeggia come se volesse voltare pagina”, come se il caffè fosse esso stesso, e non il personale di servizio, a tardare su un orizzonte antropico che ricorda molto Hopper, a patto che le sue immagini vengano unite a quelle delle tazzine di caffè eliotiane con le quali il poeta conta il suo tempo interiore.

Ancora una volta lo sguardo è quello della mancanza, di chi “si sorprende a osservare un tavolo dove tu non ci sei”. È l’assenza a scatenare l’epifania delle cose apparentemente inanimate, non la pienezza o il raggiungimento di una problematica meta: mancanza in cui paradossalmente si rivela la percezione dell’essere al di là dello sguardo, perché come aveva percepito Pavel Florenskij nel suo sprofondamento nel senso finale dell’immagine sacra, non siamo noi a guardare l’icona: è lei che ci scruta attraverso il simbolo, vale a dire l’unione profonda dell’essere con la forma.
È così che anche in Villarreal si prolunga quella percezione del silenzio abissale della natura che era emerso magistralmente in Montale ma con un richiamo ad altro, ad un recinto intorno ad un giardino perduto: “La sera è calda, il giardino stupendo, e nessuno dice niente”.

Con un apparentemente contraddittorio viaggio a ritroso nel tempo, come avevano fatto Pound con Properzio o Broch con Virgilio, senza preavviso il nostro poeta volge il suo verso all’esilio di Ovidio, ancora oggi avvolto nel mistero, così come la morte di Villon: Campo Alaska affronta il terzo mistero del destino dei poeti, l’esilio a Tomi. Ma Villarreal non si sofferma sui misteriosi motivi di tale condanna da parte di Ottaviano, se un carme, o la frequentazione di un circolo poco gradito per ragioni anche familiari all’imperatore, o la presenza su una scena in cui non avrebbe dovuto essere: al centro del malinconico canto è semplicemente la preparazione dell’esserci ad una nuova latitudine, nuovi luoghi, altri mari: perché Ovidio è poeta, e per questo è anche parte di chi scrive Mare del Nord più di duemila anni dopo. E in perenne viaggio, non solo, come abbiamo visto, geografico, ma nell’anima e nella percezione che il tutto significhi anche questa comunione attraverso l’apparentemente diverso.


José Javier Villarreal, Sul campo, a cura di Alessio Brandolini, Edizioni Fili d’Aquilone, 2025, 122 pagine, 15 euro.




POESIE DI JOSÉ JAVIER VILLARREAL
da Sul campo
Edizioni Fili d'Aquilone, 2025


*

Fuggivamo attraverso il foro dei tuoi occhi
per quelle lacrime che bagnavano i tuoi fazzoletti:
l’oro delle tue fantasie.
Fuggivamo fino a raggiungere la meta, l’altro lato della strada,
la ringhiera del parco, l’oscurità del cinema.
Per poi tornare con la stessa necessità
attraverso il foro dei tuoi occhi.


*

Apri la porta e sorge l’oscurità.
Non c’è luogo dove andare. Le lettere cadono assieme alla neve,
quella che prevedi per via del freddo. Ti accosti, ti palpi il viso,
il contorno di fuoco che nulla può illuminare.

Ti fai il segno della croce.

Ora, quando il vento solleva i tuoi capelli e attraversa il maglione e l’impermeabile che indossi,
i nascondigli che hai nelle tasche, la nuvola con la sua sera.
Quel modo di avvicinarsi,
quella melodia che ti fascia e assolve; quella risata trattenuta.
C’erano altre cose da fare, non solo sdraiarsi in poltrona,
o accendere una sigaretta
dietro l’altra, ora dopo ora, silenzio dilatato e metallico che ogni cosa cauterizza.
Poi i fiumi hanno seguito il loro alveo, il loro consueto alveo,
sotto i salici riflessi sull’acqua.


*

Così lo spiegherai
con il tuo silenzio che purificava i mobili,
i fidati arnesi che dormono al tuo fianco.
A tutto questo avrei potuto risponderti in tono misurato,
conciliatore, come tanti anni sott’acqua.
Avrei potuto portare fuori il corpo,
allontanare gli oggetti,
scuotere la polvere alla luce del sole;
ma trattenni il respiro e rimasi con la testa sott’acqua,
attento, a bocca chiusa, giù in fondo allo stagno.


*

Sogno di essere addormentato,
che fuori cade la rugiada
e che la lumaca, sulla terrazza, spunta con le sue antenne.
Sogno una notte tranquilla e pesante,
in una stanza calda e silenziosa.
Non c’è nessuno a camminare per il corridoio;
dorme persino il mio cane.

Ora nel sogno mi vedo agitato seduto su una sedia
a osservarmi mentre dormo;
e dormo – così profondamente – da non sapere se ancora respiro.


*

Per quanto tu voglia
il tempo era passato.
Stavano così vicini che non c’era spazio,
unghie sulle dita
(colpisco, e bevo, torno a colpire
e bevo di nuovo).
Non tira giù la cerniera e tutto è così stretto.
Su un carrello – aveva detto – sotto l’albero,
lo fece accomodare, sollevandogli gambe e braccia,
sistemandolo nel foro del ghiaccio,
nel rotolo del bagno, vicino al lavello,
su quella superficie così piccola.
Era l’altra che aveva fame, ma entrambe piangevano
e piangevano come un deserto, come un tramonto;
qualcuno si fermò e prese a respirare rumorosamente;
in ogni ansimo le si apriva la pelle
e la sua pelle era cadavere e le sue ossa polvere.
Accanto al raccoglitore c’era sempre la scopa:
la stessa relazione tra carne e anima.





José Javier Villarreal (Tecate, Messico, 1959)
Ha pubblicato le raccolte poetiche: Estatua sumergida (1983), Mar del Norte (1988), La procesión (1991), Portuaria (1997), Biblíca (1998), Fábula (2003), La Santa (2007), Campo Alaska (2012), Una señal del cielo (2017), Un cielo muy azul con pocas nubes (2019) Los secretos engarces (2021) e l’antologia Poeta de provincia (1981-2024) pubblicata nel 2024.
Ha ricevuto i Premi: “Nacional de Poesia Aguascalientes”, “Alfonso Reyes”, “a las Artes la UANL”, “World Cultural Council”, “Barbón de Oro”. È traduttore, saggista e insegna alla facoltà di Filosofia e Lettere della Universidad Autónoma Nuevo León.
In Italia è stato pubblicato il libro di poesia Sul campo (2025, Edizioni Fili d’Aquilone, a cura di Alessio Brandolini).

(Foto di Gabriela Bautista)


testimarco14@gmail.com