«Quando devo immaginare la mia condizione ideale, ha detto Damasco, ripenso sempre a un autoscatto del 2008 in cui ho ventotto anni e sono magro come non lo sono stato mai più. In quella foto» ha detto Damasco, «sono con un’amica, anche lei nella migliore delle sue incarnazioni, in un periodo positivo per entrambi, un anno prima che lei organizzasse una residenza per artisti e che io, in quel contesto, conoscessi una sua amica inglese con la quale poi sono stato tre anni. Ma in quell’istante, nell’istante dell’autoscatto, la catastrofe non era ancora iniziata, eravamo giovani, belli e liberi, entrambi appena usciti dalla nostra prima relazione disastrosa, e avevamo entrambi l’euforia dei sopravvissuti. In quell’autoscatto io sono così magro perché siamo a settembre, e ho appena concluso un viaggio di sette mesi in giro per l’Italia durante il quale l’alimentazione è stata l’ultima delle mie preoccupazioni: ricordo ancora la soddisfazione di pranzare con una mela e di non risentirne in alcun modo, di non aver bisogno del Polase o di altri integratori. Era stato un viaggio all’insegna del risparmio, sempre e soltanto ospite dalle decine di persone che avevo conosciuto fino ad allora, nel periodo più florido e socievole della mia esistenza; un viaggio durante il quale non ho mai pagato un alloggio, sono spesso stato ospite anche per il vitto, e in generale la morigeratezza era dettata da un piglio francescano più che da reali preoccupazioni economiche.
Nei sette anni successivi a quel viaggio, e quindi a quell’autoscatto, non ho mai più raggiunto quella condizione fisica ideale, ma sono comunque sempre rimasto entro un certo peso forma, persino durante gli anni romani, quando uscivo ogni sera e ogni sera bevevo tre bicchieri di rosso. In quegli anni compensavo una vita mondana sregolata con un’alimentazione punitiva, fatta di insalate con i cereali, zuppe di legumi e bieta col tonno. Per risparmiare, facevo la spesa soltanto al Todis, anche se poi la notte facevo lo splendido offrendo il taxi a tutti. Fino ad allora mi sono mantenuto asciutto, un po’ gonfio in viso, ma in linea di massima asciutto.
Poi tutto è cambiato, a partire dai trentacinque ho perso il controllo delle mie finanze, ho sottovalutato i costi di una famiglia, ma anche la tendenza a trascurarsi per dare priorità al benessere altrui. Ho cominciato a ingrassare e a ingobbirmi, e per la prima volta la mia attenzione ai prezzi ha smesso di essere un vezzo. Ogni giorno controllavo il conto in banca, pregando che fosse arrivato l’ennesimo bonifico in ritardo, e ogni giorno dovevo affrontare spese che non mi riguardavano – i vestitini, la danza, aikido, conti al ristorante divisi alla romana quando gli altri avevano preso il doppio delle mie ordinazioni. Tenere a bada le mie finanze è diventato impossibile, il sollecito dei pagamenti è diventato preponderante sul lavoro stesso. Ho cominciato a sentirmi povero. Anche perché intanto, nell’arco di dieci anni, i prezzi dei beni di prima necessità erano raddoppiati, mentre nell’arco di vent’anni le mie tariffe sono sempre rimaste uguali, mai nessuno mi ha concesso un aumento. L’olio è arrivato a venti euro al litro, mentre io continuavo a prendere quattro euro a cartella per una revisione, dieci per una traduzione e cento per una copertina, esattamente quanto quindici anni prima. L’olio però dovevo comprarlo subito, quando finiva, mentre i pagamenti mi arrivavano tre mesi dopo aver consegnato un lavoro, a volte anche sei mesi dopo, e dopo infiniti solleciti, con la sensazione sempre più opprimente che stavo diventando sempre più povero, che il mio potere d’acquisto era fermo a vent’anni prima, che il mondo andava avanti e che io avrei potuto campare soltanto negli anni Novanta.
Poco alla volta ho rinunciato a tutto. Un esercizio dell’essenziale. Il rasoio di Ockham. Mi serve davvero? No, quasi nulla mi serve davvero. Tutto ciò che prima mi ero concesso per premiarmi all’improvviso mi è apparso evitabile, un appagamento posticcio. Crediamo di premiarci con il consumismo, ma il consumismo non ha un punto d’arrivo, potremmo spendere all’infinito, così come potremmo non spendere quasi nulla, salvo che per i beni di prima necessità e le visite mediche e le spese burocratiche e tutte quelle altre spese imprevedibili che nella maggior parte dei casi sono soprusi di un Governo che ci fa pagare per l’illegalità altrui, per il basso senso civico altrui. Vestiti ce ne bastano pochi, se li trattiamo bene da una certa età in poi potremo usare gli stessi vestiti per tutta la vita, anche quando cominciano a consumarsi, possiamo dire che è il nostro stile. Possiamo fare a meno dei viaggi, una volta che ne hai fatto uno li hai fatti tutti, fa poca differenza essere stati da qualche parte o raccontare che ci siamo stati, perché tanto chi ci ascolta potrebbe benissimo non crederci, potrebbe guardare le nostre foto su una spiaggia caraibica, pure in cima a un monumento esotico, e sostenere che si tratti di fotomontaggi. I viaggi poi durano troppo poco rispetto a quello che costano, sono sogni a occhi aperti, il tempo di partire e siamo già di nuovo nelle nostre case a illuderci di aver visto il Grand Canyon oppure i giaguari. E allora io da un certo momento in poi non sono andato più nemmeno a Roma: ci ho vissuto sette anni, è una delle mie città preferite, ma il gioco non è più valso la candela, spendere cinquecento euro per rivedere tre giorni una città in cui hai già vissuto sette anni, mi è sembrato un capriccio che non stava più nell’economia delle cose. Non sono andato più da nessuna parte. Ho anche smesso di uscire, perché gli anni si fanno sentire, e con il tempo è sempre preferibile non bere che bere, andare a dormire dopo un pasto sano, e che ti sei preparato da solo, anziché dopo una cena imbottita di glutammato monosodico e pagata tre volte il suo valore.
Ma non ho soltanto smesso di spendere per cose nuove, ho anche cominciato a liberarmi delle vecchie, in primis dei libri, che fino a dieci anni prima come tutti avevo accumulato, e che da un certo momento in poi ho cominciato a smaltire, vendere, regalare, finché oggi me ne sono rimasti un centinaio, giusto quelli che un giorno mia figlia potrebbe leggere. E oggi quando entro in un supermercato, e subito mi gira la testa di fronte all’offerta spropositata di marche, prodotti e varianti un tempo introvabili, tutte quelle chicche che fino a dieci anni prima bisognava fare i salti mortali, e che adesso invece trovi in qualsiasi catena e in qualsiasi discount: avocado, quinoa, wasabi, mochi, oggi trovi tutto ovunque, le cose più sfiziose e deliziose, e vorresti comprare tutto, ma comprare tutto è impossibile, e allora alla fine non compri nulla, perché già il solo processo decisionale sarebbe uno spreco di tempo, e il tempo è denaro, e mettersi lì a scegliere tra una pasta all’alga spirulina, oppure dei bao surgelati, già soltanto scegliere tra miliardi di leccornie è una perdita di tempo che non posso più permettermi. Anche perché comunque ormai costa tutto troppo, e la priorità va ai beni di prima necessità, e già questi beni costano il doppio rispetto a dieci anni fa, mentre io continuo a subire le stesse tariffe da dieci anni, e allora va da sé che io posso a malapena permettermi il paniere del dopoguerra, niente sfizi, niente leccornie, devo ottimizzare le mie finanze per garantirmi una dieta sana e nutriente, per garantirla a me e soprattutto a mia figlia, anche se, nel suo caso, non attraverso l’acquisto diretto bensì attraverso gli alimenti che ogni mese devo versare alla mia ex moglie. E così la mia priorità è diventata il risparmio stesso, mettere da parte gli alimenti, e tutte quelle spese che ancora mi tocca pagare, ogni tre mesi, la danza l’aikido la piscina, tutte quelle cose che non mi riguardano in modo diretto ma per pagare le quali io vivo esisto e lavoro senza altro scopo che non sia vivere per lavorare per pagare gli alimenti.
Da tempo ormai non riesco più nemmeno a tenere la casa pulita, non posso permettermi una donna delle pulizie, e così mi trovo spesso invaso dalle formiche, e non ho più nemmeno la forza di combatterle. I primi mesi ho provato di tutto, ho stuccato ogni interstizio, ogni guida tra le mattonelle, ogni infisso, giacché lo stucco è stata comunque la soluzione più economica, benché la meno efficace. Ma poi a un certo punto ho rinunciato, e da qualche mese non posso fare a meno che osservarle ogni volta che dimentico qualcosa nel posto sbagliato, scatenando un’invasione.
Le formiche non esistono in quanto individui, ma soltanto in quanto colonia. Per quante possa averne uccise, con l’insetticida o a volte schiacciandole in preda a un attacco di ira, loro sono sempre tornate. So benissimo che comunicano tra loro, il che significa che per mesi si sono immolate nella consapevolezza che centinaia di loro simili erano morte nelle stesse aree della casa. Eppure la ricerca del cibo per una colonia di formiche è una priorità tale da meritare il sacrificio di metà della colonia. Al massimo, un’ora dopo ogni carneficina, spuntavano sempre tre o quattro sentinelle che avevano il compito di assicurarsi che non ci fosse traccia di vita nei corpi delle compagne annientate. Dedicavano un secondo a ciascuna, gobbetti con le antenne, e poi tiravano oltre. Non avrebbero mai avuto il tempo per una degna sepoltura, ma volevano scongiurare qualsiasi agonia superflua. In questa loro disperata ricerca di cibo gli individui sono irrilevanti, tutto ciò che conta è la colonia, la società. L’individualità è un’illusione soltanto umana.
Poi, di recente, durante il mio unico fine settimane mensile con lei, pulendo un finocchio io e mia figlia abbiamo trovato un bruco, di un bel colore verde acceso, quasi fluo, uno di quelli più comuni. Ce lo siamo fatti camminare sulla mano, ci siamo subito affezionati, era goffo e simpatico. Abbiamo cercato su internet, era un bruco della falena Chrysodeixis chalcites. Anziché liberarlo in natura, ho deciso di fare una cosa contro la mia etica, e l’abbiamo tenuto, l’abbiamo messo in una scatola trasparente e siamo stati ore a osservarlo, impressionati dalla quantità spropositata delle sue feci. In poche ore la scatola si riempiva di palline nere, e dovevamo pulirla. Di tanto in tanto il bruco si fermava, immobile, e rimaneva così per non so quanto. Ma quando si muoveva, mangiava. Muoversi e mangiare erano per lui un tutt’uno. Viveva per mangiare. Già il giorno dopo era raddoppiato di dimensioni. Abbiamo riprovato a toccarlo, ma adesso era meno amichevole: più grosso, era anche più aggressivo. Mia figlia ha detto che era “aggrossivo”. Abbiamo riso, e abbiamo continuato a osservarlo tutta la domenica, a dargli qualcosa d’altro, giusto per cambiare, una foglia di songino, una di basilico. Quando ho lasciato mia figlia a scuola, il lunedì mattina, le ho giurato che se il bruco avesse cominciato a impupare glielo avrei portato con tutta la scatola a casa della mamma, affinché potesse assistere alla metamorfosi. Quando poi sono tornato a casa, nonostante tutto quel cibo e tutta quella cacca e tutta quella energia vitale, senza che ci fosse stata la minima avvisaglia, il bruco era già morto».
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