Un’eccessiva esposizione dei propri talenti
Emerson, Lake e Palmer furono negli anni Settanta espressione del cosiddetto progressive rock (aggiungo symphonic). Nel 1970 il tastierista Keith Emerson lascia i Nice, il chitarrista e bassista Greg Lake si stacca dai King Crimson di cui era stato cofondatore assieme a Robert Fripp e il batterista Carl Palmer abbandona gli Atomic Rooster. Dopo la prima esibizione dal vivo al Festival dell'Isola di Wight (avevano però già suonato la settimana precedente davanti a tremila persone alla Plymouth Guildhall), i tre pubblicarono il disco d’esordio intitolato semplicemente Emerson Lake & Palmer. Da quel momento la sigla ELP diverrà il loro marchio di fabbrica e, per i successivi quattro album (Tarkus, Picture at an Exibition, Trilogy e Brain Salad Surgery), garanzia di qualità fino alla metà degli anni Settanta quando comincerà il declino del gruppo.
Dunque i tre, nel novembre del 1970, esordiscono sul mercato con l’album Emerson Lake & Palmer con un buon successo di pubblico (quarto posto nelle vendite in Gran Bretagna). Dopo pochi mesi (giugno 1971) esce Tarkus e la popolarità del trio si consolida nonostante il disco crei all’interno della band alcuni dissidi. Tra i due lavori i tre avevano registrato dal vivo Picture at an Exibition, rifacimento con lettura rock progressive dell’opera di Modest Petrovič Musorgskij, ma ne avevano rimandato l’uscita che invece avverrà nel novembre dello stesso anno. Un’azione commerciale che oggi sarebbe considerata suicida ma che si rivela strategicamente perfetta. Il successo del disco è clamoroso anche negli Stati Uniti dove però la Atlantic, etichetta discografica americana dei tre, aveva escluso la pubblicazione ritenendo l’album non adatto al mercato d’oltre oceano. Uscirà soltanto nel 1972 quando moltissime copie d’importazione avevano già fatto bella mostra di sé nei negozi americani.

ELP riproducono abbastanza fedelmente l’opera di Musorgskij contaminandola però con brani propri come la dolcissima The Sage di Lake, Blues Variation del trio al completo – inevitabile prosieguo dell’originale The Old Castle, – e The Curse of Baba Yaga anche questo brano creazione dei tre. Il disco si conclude con Nutrocker – una cover della versione del ’62 di Kim Fowley – di Pëtr Il'ič Čajkovskij che verrà pubblicata anche su 45 giri.
Gli arrangiamenti di Emerson di ogni brano di Musorgskij fanno sì che non ci si accorga dell’intrusione delle composizioni originali del trio rendendo l’intero lavoro fluido e omogeneo.
Purtroppo però gli eccessivi virtuosismi dei tre, presenti comunque in ogni album, rendono la realizzazione del disco un po’ algida, come se una sorta di continua competizione tra i componenti trasformasse ogni brano in una gara per dimostrare chi è il più veloce, il più tecnico o talentuoso.
Stiamo parlando ovviamente di tre grandi musicisti per i quali, per la prima volta, venne coniato il termine “supergruppo”, tre artisti padroni dei loro strumenti ma che spesso, insieme, non creavano quell’alchimia che porta emozioni all’ascoltatore. Ecco, riferendomi all’argomento di questo numero, è a causa della loro fame di fama che molti dei loro lavori sembrano un po’ slegati, album nei quali troviamo brani caratterizzati quasi sempre dagli assoli dell’uno e dell’altro, canzoni dove ognuno, col proprio strumento, prova a inserirsi nelle frasi musicali dell’altro.
Nelle esibizioni dal vivo, invece, ciascuno dei tre riusciva a trascinare il pubblico con variazioni, interminabili assoli e virtuosismi, e lì la musica cambiava (è proprio il caso di dirlo) e quelli che nelle registrazioni in studio risultavano difetti, davanti a mila persone, diventavano indimenticabili.
In conclusione, nonostante alcuni passaggi meno coinvolgenti, Picture at an Exibition rimane un’operazione coraggiosa eseguita in anni in cui le barriere tra rock e musica classica sembravano invalicabili e dopo oltre 50 anni rimane per molti una pietra miliare nel panorama progressive.
Assistetti a due loro concerti a Roma: nel ’72 al Palazzo dello Sport dell’Eur e l’anno seguente allo Stadio Flaminio, sempre a Roma. I miei ricordi, fissati su due diari scolastici dell’epoca, parlano di una prima esibizione memorabile (nonostante la pessima acustica che ancora affligge il Palazzo dello Sport) mentre per quella seguente la delusione provata è racchiusa in poche righe: … si è trattato di un’esibizione meccanica, uno spettacolo senza l'anima del concerto precedente, uno show posticcio eseguito solo per contratto.
In un tempo in cui i vocaboli inglesi occupano buona parte del nostro lessico ho commesso un errore: l’argomento di questo numero l’ho letto come se vivessi a Londra (va bene anche Manchester o un’altra qualsiasi località britannica di vostro gradimento). Perciò il termine FAME (fenomeno cenestesico legato alla necessità da parte dell’organismo animale di introdurre del cibo secondo un determinato ritmo, intimamente connesso al processo della digestione. Dal settimo volume del Grande Dizionario Enciclopedico UTET) nella mia lettura anglosassone è diventato automaticamente fama, celebrità e ciò mi ha spinto a parlarvi di Keit Emerson, Greg Lake e Carl Palmer. Perché proprio loro? Perché dopo tanti numeri di questa rubrica erano un argomento non ancora trattato. Piacerà lo stesso al direttore?
– Certo che gli piacerà! – mi grida nelle orecchie il solito criceto visitatore dei miei dormiveglia mattutini, avatar della mia coscienza, stavolta ospite del pisolino post prandiale.
– Te la sei giocata bene con la scusa dell’errata lettura del termine FAME: in fondo la fame di fama è più che attinente all’argomento di questo numero e il trio supergruppo ci ha convissuto per più di otto anni. Vedrai che lo accetterà volentieri.
Tranquillizzato dal conforto del roditore solitamente propenso a critiche negative nei confronti delle mie scelte, riaccendo il PC e invio il pezzo in redazione.
cardstefano@libero.it
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