FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 56
settembre-dicembre 2020

Caos

 

VIAGGIO ATTRAVERSO L’ENIGMA DELL’ARTE
Tzvetan Todorov e la grande questione del
rapporto tra creazione artistica e vita reale

di Marco Testi



C’è una morale nell’opera d’arte? È la domanda che il colto si pone da tempi immemorabili. Tzvetan Todorov si interroga sulla questione sia sul versante figurativo che su quello letterario. Anche perché lo scrittore e saggista bulgaro, ma francese d’adozione, da tempo dedica la sua attenzione a quella che con una orrenda parola è stata battezzata Culturologia e che forse dovremmo semplicemente abituarci a pensare come una forma di comparativistica: il rapporto tra letteratura, arti figurative e cultura di una data epoca. Anche nel suo Il caso Rembrandt (2017) affronta il discorso della moralità all’interno dell’opera d’arte, quella di Rembrandt, e della letteratura, antica e moderna.

La vita di Rembrandt è stata piuttosto complicata e travagliata, e una delle accuse che gli è stata portata è quella di aver trascurato la famiglia, di essersi disinteressato degli altri per incidere e dipingere. Il critico prende di petto la questione: non è Rembrandt ad essere amorale, è, al contrario, la sua arte ad essere morale. Todorov ci presenta, riproducendole nel libro, molte incisioni del pittore olandese, soprattutto quelle in cui appaiono vagabondi, poveri che chiedono la carità, come anche scene di famiglie, bambini, oppure, retaggio della malattia della moglie Saskia, donne sofferenti a letto. Certo, il grande artista si allontana da una gran parte del reale sociale, dalle coordinate estetiche del tempo per andare oltre, come tutti i geni. Ma in questo oltre c’è anche, dice Todorov, il senso del discorso sulla morale: la sua partecipazione al dolore, agli affetti, alla povertà (il suo clamoroso fallimento economico lo costringerà a cambiare vita e quartiere), alla sofferenza degli altri lui la esprime nell’unico modo di cui era capace: la sua arte.

Nei visi dei questuanti che si umiliano nel chiedere un tozzo di pane (geniale preveggenza di quello che avrebbe potuto accadere a lui a causa dei suoi sperperi) si coglie la profonda partecipazione del loro creatore. Le sue creature, come aveva ben intuito Flaubert, prendono una vita propria e se ne vanno in giro con una loro vita. Sono suoi figli, eppure non sono lui. O, per lo meno, non lo sono completamente. Come in letteratura i personaggi creati non devono parlare né pensare né agire nello stesso modo del loro creatore, ma avere una loro dimensione universale rispetto al particulare dello scrittore. La lezione di Rembrandt, scrive il critico, “è di umanità e universalità. È grazie a queste qualità se ognuno di noi può riconoscersi nei suoi dipinti e ritrovarvi le proprie emozioni o i propri interrogativi”. Ma per fare questo l’artista deve dedicarsi completamente alla propria creazione, altrimenti resterebbe in mezzo tra i due punti focali, l’arte e la vita quotidiana. Ecco perché talvolta pittori, pensatori, artisti hanno avuto una vita privata o scarna, o tribolata, a volte completamente lacerata: avevano scelto la loro strada a discapito della materialità o del sentimento nel qui della realtà, trasposto però in una diversa dimensione. Quello che è capitato ad esempio a Rousseau, di cui si parla, tra l’altro, nella seconda parte di questo libro, in cui la letteratura ha una parte preponderante.

Todorov la prende alla lontana, da Platone e dalla sua condanna dell’arte e della poesia come copie, riproduzioni, imitazioni. Il critico interpreta questa condanna come il tentativo del greco di mettere tutto nelle mani dell’istituzione, un organismo sovrapersonale che mira solo al bene dello stato. Todorov non lo dice apertamente, ma qui gioca probabilmente, e a livello chissà quanto inconscio, l’esperienza diretta del socialismo reale, che vedeva ogni realtà finalizzata al bene supremo dello stato, in un’ottica hegeliano-marxista. Questo “vaccino” opera in modo duplice: la visione negativa di un eccessivo peso istituzionale nel campo culturale e la modulazione di un concetto di libertà all’interno del mondo artistico. Ma qui viene respinta anche la completa gratuità, rivendicata soprattutto da Wilde, dell’opera, che non è tutta impegno sociale né completamente assorbita dalla dimensione estetica. Certo, come insegna Lessing, l’arte non può essere ancella della morale, ma neanche, afferma Todorov, un’isola sperduta nel mare dell’estetica pura. È una concezione inadeguata a capire la complessità dell’opera sia letteraria che artistica, proprio perché metterebbe paradossalmente in dubbio la sua libertà, che è quella di non appartenere a nessuna dimensione assoluta, ma di partecipare della visione del mondo dell’autore. Come ad esempio nelle incisioni di Rembrandt che rappresentavano poveri alle porte dei ricchi, precipitava la tecnica rappresentativa dell’artista e insieme la sua pietas che noi possiamo ricavare da quella stessa opera.

Come anche Rilke aveva compreso, l’opera è una trasformazione alchemica in cui si consuma tutto l’amore del creatore. E spesso non nella sua vita, privata e pubblica. Il romanzo moderno arriva a sostenere lo sguardo meduseo della complessità, riuscendo a dirla soprattutto attraverso il rifiuto del manicheismo, vale a dire di una visione in cui esistono solo il bianco e il nero. Ma spesso il romanziere che arriva a quelle complessità non riesce a viverle.
L’arte vuole tutto per sé, rendendo la realtà dello scrittore come quella dell’attore: investe tutta la sua capacità e la sua passione nel mettersi dentro una parte, ma quando non recita non è più quella parte, dove però ha trasfuso tutta la sua pietas o il suo odio. Il grande scrittore “si vota completamente alla ricerca della verità”, può riuscire a rappresentare magistralmente l’amore, ma quando smette di scrivere, può tornare ad essere una persona egoista e fobica rispetto a quello stesso amore.

Come già aveva intuito Hannah Arendt il carnefice scrupoloso può essere un buon padre di famiglia, ma ciò non cancella l’orrore compiuto. Allo stesso modo la profonda pietas per il povero che si accosta al portico per riposare la notte, al freddo e alla fame, mostrata da Rembrandt non veniva poi trasferita nella vita reale.
Forse un po’ troppo assertivo e schematico, ma Todorov ha il merito di aver ricominciato il cammino nel labirinto del rapporto autore-realtà-opera senza l’uso di apporti extra-disciplinari, come quello della psicoanalisi, per concentrarsi sul grande, e per questo mai svelato del tutto, enigma della umana creazione.


Tzvetan Todorov, Il caso Rembrandt, traduzione di Doriana Comerlati, Garzanti, 2017, 129 pagine, 20 euro.

testimarco14@gmail.com