FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 55
maggio/agosto 2020

Cenere

 

LE GRAZIE DELLA CENERE

di Gabriella Pace



*

Guardiamo la città
dall’alto se il mare non si oppone
se il vento non interviene
a reclamare spazio
limpido solo il cielo, il cobalto del
giorno. Vuote le piazze e assennati
i silenzi. Sonni in assenza di corpi
immeritate consuetudini
così pervasiva solitudine, manca
la sabbia alle clessidre vuote
dove univamo le nostre mani
per salutarci, ora lo scarto incerto
dell’animale non pronuncia commiati.


*

Il papavero non ne vuole sapere
di schiudere il suo sorriso
se ne sta leggermente curvo, piegato come
un uomo che si guarda le scarpe
solo il colore acuto il timbro di sangue
mostra il suo volto il seme
l’impulso al movimento alla luce
diurna. L’avrebbe inseguita
ma fuori è guerra è fame è pestilenza
da quale cornucopia da quale messe
scivolata via la sua radice quieta sotto
la terra. Non osa nemmeno domandarlo
è in sé dentro di sé che ripete incessante
la preghiera esicasta di un mite pellegrino.


*

Era questa la stagione folle
Le infinite formiche, le api festose.

Milioni di petali traboccano
si congedano dalle corolle accese
sia canto il loro gioco nel vento
cornucopia raccolto prima del gelo
preghiera splendore dissipato
sia quel che sia, perfino cenere
sottile, ancora ardente di brace
memoria di fuoco contemplato
velo disteso sopra ogni cosa
guardata. Sia ragno che intesse per
catturare, tavola apparecchiata
per condividere, spezzare un pane
toccare un corpo, alimentare un noi.


*

A Jeanne D’Arc in memoriam

Fu cenere nel cielo sopra Rouen
Volò via il tuo corpo
– il corpo di una santa –
le voci ascoltate ammutolirono
il soffio stesso del vento le rapiva
nel polline di maggio.

Era un tempo in cui intrecciavi segreti
in collina, il cuore nascosto
nel fieno alto, nelle devozioni della sera
giorni passati in attesa prima del
balzo. Avresti poi cavalcato
alla testa di un esercito
stordita dalla volontà, stregata
dalla fama che sola ti aveva preceduta.

Quale corte avrebbe potuto accoglierti
e quale tribunale condannarti in catene
condensarti in un filo di fumo?
Ecco una donna, non più una donna
un’eretica vestita da ragazzo
un’armatura una sottana rossa
da contadina vergine dei Vosgi
una tunica pura come l’avorio per
incontrare il fuoco

Tutti attendiamo abbandonati
invisibili, più o meno reietti
sulla soglia delle porte regali
chi sa se indossiamo davvero
il vestito giusto e sappiamo sempre
trovare le parole appropriate
in fondo il corpo è un nulla, pulviscolo
in un raggio di luce

E sempre il cuore non brucia,
non si distrugge,
qualunque sia la pece.


*

A Percy Bysshe Shelley

Sospinto dal soffio di luglio, il vento
occidentale, sulla costa le viti incendiate
dal tramonto, colme di pianto le nuvole
nel golfo. Vive chi può, contempla chi sa
contemplare i bagliori dell’acqua
l’azzurro cangiante, la danza di un velo.
Distese le vele all’azzardo del mare
in tasca le poesie di un uomo
il cui nome è scritto nell’acqua.
Forse hai riposto il libro, la pagina ripiegata
scosso da un’onda più forte, richiamato
alla vita dallo splendore del giorno
eri intento alle tue meraviglie
perderti nel mare nel canto delle foglie
nel vento che rimescola i pensieri
i versi, il volto amato, il suono della cetra
l’oro dei greci, le sacre urne.
Così tutto bruciò di te, tranne il tuo cuore
Intatto nel rito pagano di una pira
improvvisata. Gemevano le tamerici inchinate
sullo strazio del corpo, sussurravano i molti
burocrati intorno, prendendo nota del fatto.
Solo un altro poeta che sapeva nuotare
guadagnò il mare aperto, straziandosi il
respiro. Era tuo amico.


gabriella.pace@beniculturali.it