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Guardiamo la città
 dall’alto se il mare non si oppone 
 se il vento non interviene
 a reclamare spazio
 limpido solo il cielo, il cobalto del
 giorno. Vuote le piazze e assennati
 i silenzi. Sonni in assenza di corpi
 immeritate consuetudini
 così pervasiva solitudine, manca
 la sabbia alle clessidre vuote
 dove univamo le nostre mani
 per salutarci, ora lo scarto incerto
 dell’animale non pronuncia commiati.  
*
 
Il papavero non ne vuole sapere
 di schiudere il suo sorriso
 se ne sta leggermente curvo, piegato come
 un uomo che si guarda le scarpe
 solo il colore acuto il timbro di sangue
 mostra il suo volto il seme 
 l’impulso al movimento alla luce
 diurna. L’avrebbe inseguita
 ma fuori è guerra è fame è pestilenza
 da quale cornucopia da quale messe
 scivolata via la sua radice quieta sotto
 la terra. Non osa nemmeno domandarlo
 è in sé dentro di sé che ripete incessante
 la preghiera esicasta di un mite pellegrino.  
*
 Era questa la stagione folle Le infinite formiche, le api festose. 
Milioni di petali traboccano
 si congedano dalle corolle accese
 sia canto il loro gioco nel vento
 cornucopia raccolto prima del gelo
 preghiera splendore dissipato
 sia quel che sia, perfino cenere 
 sottile, ancora ardente di brace
 memoria di fuoco contemplato
 velo disteso sopra ogni cosa
 guardata. Sia ragno che intesse per 
 catturare, tavola apparecchiata
 per condividere, spezzare un pane 
 toccare un corpo, alimentare un noi.  
*
 A Jeanne D’Arc in memoriam 
Fu cenere nel cielo sopra Rouen
 Volò via il tuo corpo
 – il corpo di una santa –
 le voci ascoltate ammutolirono
 il soffio stesso del vento le rapiva
 nel polline di maggio.
 
 Era un tempo in cui intrecciavi segreti
 in collina, il cuore nascosto 
 nel fieno alto, nelle devozioni della sera
 giorni passati in attesa prima del
 balzo. Avresti poi cavalcato 
 alla testa di un esercito
 stordita dalla volontà, stregata 
 dalla fama che sola ti aveva preceduta.
 
 Quale corte avrebbe potuto accoglierti
 e quale tribunale condannarti in catene 
 condensarti in un filo di fumo?
 Ecco una donna, non più una donna
 un’eretica vestita da ragazzo
 un’armatura una sottana rossa 
 da contadina vergine dei Vosgi
 una tunica pura come l’avorio per
 incontrare il fuoco
 
 Tutti attendiamo abbandonati
 invisibili, più o meno reietti
 sulla soglia delle porte regali
 chi sa se indossiamo davvero 
 il vestito giusto e sappiamo sempre
 trovare le parole appropriate
 in fondo il corpo è un nulla, pulviscolo 
 in un raggio di luce  
 
 E sempre il cuore non brucia, 
 non si distrugge,
 qualunque sia la pece.  
*
 A Percy Bysshe Shelley 
Sospinto dal soffio di luglio, il vento
 occidentale, sulla costa le viti incendiate 
 dal tramonto, colme di pianto le nuvole
 nel golfo. Vive chi può, contempla chi sa
 contemplare i bagliori dell’acqua
 l’azzurro cangiante, la danza di un velo.
 Distese le vele all’azzardo del mare
 in tasca le poesie di un uomo
 il cui nome è scritto nell’acqua.
 Forse hai riposto il libro, la pagina ripiegata
 scosso da un’onda più forte, richiamato 
 alla vita dallo splendore del giorno
 eri intento alle tue meraviglie
 perderti nel mare nel canto delle foglie
 nel vento che rimescola i pensieri
 i versi, il volto amato, il suono della cetra 
 l’oro dei greci, le sacre urne.
 Così tutto bruciò di te, tranne il tuo cuore
 Intatto nel rito pagano di una pira
 improvvisata. Gemevano le tamerici inchinate  
 sullo strazio del corpo, sussurravano i molti 
 burocrati intorno, prendendo nota del fatto.
 Solo un altro poeta che sapeva nuotare
 guadagnò il mare aperto, straziandosi il 
 respiro. Era tuo amico.
  
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