| 
* 
Ya nadie viene a nuestra casa. 
 Cuando pasan frente a ella, los vecinos
 desvían los ojos. Mira 
 las grietas en las paredes, mira
 la pintura que se desconcha, la cal
 sucia y cansada. Una casa vacía
 no es una casa: es un cráneo. 
 Las cuencas de sus ventanas 
 se ahondan como si a través de ellas
 pudieras atisbar otro mundo, 
 el envés de la vida. Pero no hay nada.
 Quien haya visto un rostro muerto
 lo sabe: la oscuridad de las cuencas
 vacías no significa. No hay 
 ningún secreto en ellas, no devela
 ningún enigma. El más allá es nuestra
 invención más banal. Paso los días
 pensándolo, aquí encerrada, sin
 salir. Hace mucho calor 
 y hace semanas que no llueve. 
 Pienso: no es cierto lo que dicen: 
 no fue mi hermano
 quien mató a mi madre. Fui yo. Fui
 yo, con estas mismas manos, bajo
 este mismo techo. Yo. Mi hermano
 nunca quiso cobrar venganza;
 siempre había sido un cobarde. 
 Nadie cree que haya podido ser
 la pobre Electra, con sus gestos
 tan nerviosos, siempre tan asustada,
 como una liebre desteñida. 
 Electra, con esa luz estriada en los ojos.
 Fui yo quien. Yo la maté. Pero
 no por venganza, no porque hubiera
 matado a mi padre, no. Era un miserable
 y se lo merecía. Lo hice porque 
 en esta familia, lo único que sabemos
 hacer bien es matarnos. Todo lo demás
 sobra. Entré a su cuarto y me acosté
 junto a ella, abrazándola fuerte, 
 en esa misma cama raquítica. 
 Y así, tan cerca que 
 podía oler el bosque agudo de su cabello,
 así la apuñalé. No me miró sorprendida, no
 intentó apartarme. Así. Era lo normal, lo que
 se esperaba de mí. Luego, arrojé el cadáver
 a la calle; todos asumieron que había sido
 Orestes. Lavé las sábanas, lavé el suelo,
 lavé la sangre de mis manos. El único
 más allá que conozco está al otro lado
 del desagüe. Lo que no puedo borrar, 
 por mucho que lo intente, es el sudor. 
 El sudor de mis palmas, que hace
 que todo se me resbale. El sudor de 
 la frente, que me nubla los párpados. 
 El sudor es otra sangre, transparente
 y tiesa, que me brota de la piel. 
 Creí que vendría por mí la policía, 
 los vecinos, una turba buscando
 lincharme. Que tumbarían la puerta
 y me arrastrarían a la acera, que me 
 escupirían, me bañarían con la saliva agria 
 que les duerme la boca y 
 me golpearían como se bate al perro
 rabioso, a pedradas y palos. Que me colgarían
 de una rama con mis propios cabellos.
 Mi casa quedaría desdentada, hueca.
 Pero no vino nadie. Ni siquiera se acercaron
 las erinias, como esos pájaros que temen la sal.
 El futuro miente. El futuro siempre miente. 
 Es un animal de presa
 que intenta devorarnos. Es lo único 
 que he llegado a entender aquí encerrada.
 Lo único mientras me cocino lentamente 
 aquí adentro. Hace mucho calor. La claridad 
 es insoportable. No sé qué hacer 
 con los ojos. Si los abro, la nitidez 
 de los objetos duele, cada borde
 un filo. Árboles, muros, techos,
 puertas: todo brilla en hoja 
 de cuchillo. Pero si los cierro, 
 me abraza una neblina amarga,
 roja. Tengo que irme. Tengo que salir
 de aquí, de esta ciudad, de esta herencia
 de bilis y baba negra que me dejaron. 
 Cuando me haya ido, volverán las lluvias.  
*
Nessuno mette più piede a casa nostra. 
 Quando i vicini ci passano davanti 
 distolgono lo sguardo. Guarda  
 le crepe sui muri, guarda
 la vernice che si scrosta, la calce
 sporca e spossata. Una casa vuota
 non è una casa: è un cranio. 
 Le orbite delle sue finestre 
 affondano come se attraverso di esse
 potessi intravedere un altro mondo, 
 il rovescio della vita. Ma non c’è nulla.
 Chi ha visto un volto morto 
 lo sa: l’oscurità delle orbite
 vuote non significa niente. Non c’è  
 nessun segreto in loro, non svela
 alcun enigma. L’aldilà è la nostra
 invenzione più banale. Trascorro i giorni
 pensandoci, qui rinchiusa, senza
 mai uscire. Fa molto caldo 
 e sono settimane che non piove.
 Penso: è falso ciò che dicono: 
 non è stato mio fratello
 a uccidere mia madre. Ma io. Sono 
 stata io, con queste stesse mani, sotto
 questo stesso tetto. Io. Mio fratello
 non ha mai voluto vendicarsi;
 era sempre stato un codardo. 
 Nessuno crede che l’abbia potuto fare
 la povera Elettra, con i suoi gesti
 così nervosi, sempre così spaventata,
 come una lepre scolorita. 
 Elettra, con quella luce striata negli occhi.
 Sono stata io. L’ho uccisa io. Ma
 non per vendetta, non perché avesse
 ucciso mio padre, no. Era un miserabile
 e se lo meritava. L’ho fatto perché 
 in questa famiglia, l’unica cosa che sappiamo
 far bene è ucciderci. Tutto il resto
 è in più. Entrai nella sua stanza e mi sdraiai
 accanto a lei, abbracciandola forte, 
 nello stesso letto rachitico. 
 E così, tanto vicine  
 da sentire l’odore acuto di bosco della sua chioma,
 così la pugnalai. Non mi guardò stupita, non 
 cercò di allontanarmi. Così. Era normale, quello che
 si aspettava da me. Poi gettai il cadavere
 per strada, tutti pensarono che fosse stato
 Oreste. Ho lavato le lenzuola e il pavimento,
 ho rimosso il sangue dalle mie mani. Il solo 
 aldilà che conosco sta dall’altra parte 
 dallo scarico. Ciò che non posso cancellare, 
 per quanto ci provi, è il sudore. 
 Il sudore dei miei palmi che mi fa
 scivolare ogni cosa dalle mani. Il sudore 
 della fronte, che mi annebbia le palpebre. 
 Il sudore è un altro sangue, trasparente
 e rigido, che mi sgorga dalla pelle. 
 Credevo che la polizia sarebbe venuta a prendermi, 
 anche i vicini, una folla che avrebbe provato
 a linciami. Che avrebbero sfondato la porta
 per poi trascinarmi sul marciapiede, che mi 
 avrebbero presa a sputi, annaffiata con l’acida saliva
 che dorme nelle loro bocche e 
 picchiata come si batte un cane
 rabbioso, con pietre e bastoni. Che mi avrebbero impiccata 
 a un ramo con i miei stessi capelli.
 La mia casa sarebbe rimasta sdentata, vuota.
 Ma non venne nessuno. Neppure si avvicinarono
 le Erinni, come quegli uccelli che temono il sale.
 Il futuro mente. Il futuro mente sempre. 
 È un animale da preda
 che cerca di divorarci. È l’unica cosa 
 che ho capito stando qui rinchiusa. 
 L’unica cosa mentre cucino adagio 
 qui dentro. Fa molto caldo. Il chiarore 
 è insopportabile. Non so cosa fare 
 con gli occhi. Se li apro mi fa male
 la nitidezza degli oggetti, ogni bordo
 un taglio. Alberi, muri, tetti,
 porte: tutto brilla sulla lama 
 del coltello. Ma se li chiudo, 
 mi abbraccia una foschia amara,
 rossa. Devo andarmene. Devo uscire
 da qui, da questa città, da questa eredità
 di bile e bava nera che mi hanno lasciato. 
 Solo quando me ne andrò tornerà la pioggia. 
  
  |