FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 59
novembre 2021

Rovine

 

FABIÁN MARTÍNEZ SICCARDI, BESTIE FUORI

di Marco Benacci



Da poche settimane è uscito per le Edizioni Le Lettere di Firenze il romanzo Bestie fuori dell’argentino Fabián Martínez Siccardi, da me tradotto e curato. Edito per la prima volta nel 2013 con il titolo Bestias afuera (Alfaguara, Buenos Aires), nello stesso anno ha vinto il prestigioso «Premio Clarín de Novela».
Proponiamo qui sotto la mia introduzione Una «fiumana ove ‘l mar non ha vanto», il cui titolo cita il verso 108 del Canto II dell’Inferno di Dante Alighieri, e a seguire un estratto del capitolo IV del romanzo.


Una «fiumana ove ‘l mar non ha vanto»

La prima volta che ho letto questo libro nell’edizione originale, quando ancora non sapevo che ne sarei stato il traduttore della versione italiana, ho avuto la sensazione di aver navigato su un fiume: l’esperienza della lettura, dalla trama allo stile, mi hanno ricordato da subito la natura di un corso d’acqua, le varie forme che questo assume in base al percorso e al tempo, il suo essere sia forza che placidità, sia distruzione che vita.
Ad esempio mi ha colpito molto con quale sinuosità attraversa molti temi tipici della letteratura del Nuovo Mondo, come la caratterizzazione dei personaggi della campagna argentina che in Italia abbiamo imparato ad amare con Don Segundo Sombra,{1} la dicotomia civiltà e barbarie, le descrizioni della natura da quelle più auliche a quelle più crude,{2} la caratterizzazione dei personaggi e delle dinamiche che richiamano la letteratura statunitense, la costruzione del tempo narrativo emblematiche nella letteratura del Boom, ma anche l’iperrealismo caraibico; tutti elementi che fanno di Bestie fuori un fiume assolutamente americano, non solo per l’ambientazione.

Il libro narra la storia dei giorni vissuti dal giovane agronomo Florián a La Guillermina, una tenuta rurale posta in una valle della provincia argentina. Il luogo è così appartato dal resto del mondo da essere il punto finale di ogni tragitto percorribile, quasi uno spazio a sé stante, che non è solo isolato geograficamente, ma anche a livello temporale, in cui tutto sembra essersi fermato, dove ogni cosa che lo compone e lo popola è sola.

In un posto come questo bisogna controllare la propensione della mente a popolare l’inabitato. Qui i pensieri si ingigantiscono e possono prendere vita nella maniera più inaspettata, più inquietante.
Quest’isolamento è la sorgente del romanzo, la spinta iniziale che fa scorrere il libro verso la sua foce. A partire da qui le pagine sono un susseguirsi di sorprese in cui il protagonista, in fuga da un passato opprimente, sin dal suo arrivo, si accorge che tutto quello che lo circonda è avvolto nei misteri («In campagna ne succedono di cose, ragazzo, ne succedono sempre di cose»); lungo il tragitto sarà costretto a vivere delle esperienze inaspettate che metteranno alla prova il suo stesso io, che lo porteranno a porsi delle domande sull’esistenza che ben presto coinvolgeranno anche il lettore. Perché Bestie fuori è un fiume che nasconde nelle sue profondità segreti, elementi oscuri o celestiali, che in qualche modo chi lo percorre deve affrontare; le sue acque sono popolate da persone (anche quelle solo menzionate), da animali, da entità, che internamente non sono mai solo quello che appaiono, la prima impressione non è mai quella che conta. Ne è un esempio la natura: bella e spietata, pacifica e implacabile; a La Guillermina le cose pericolose riveleranno il loro fascino, quelle pacifiche tireranno fuori la bestialità.{3}

Nessuna sorgente rivela il destino del fiume che partorisce, e quello che è dentro il letto del libro viene di volta in volta svelato, mentre qualcos’altro viene nascosto. Con lo scorrere delle pagine, dall’argine si percepisce il movimento del mistero, anche quando nel racconto regna la calma. Per questo la lettura è veramente appassionante, si attraversa una storia con «il lampo in un orecchio e nell’altro il paradiso»{4} per citare De André, in cui tutto vive in un equilibrio precario, in cui tutte le cose sono legate alle altre.
Per spiegare questo concetto ricorro a una delle prime immagini del racconto, quando Florián arriva a La Guillermina:

Il casale della tenuta era delimitato da una recinzione in pietra, fiancheggiata da alti eucalipti e da algarrobos. All’interno di quel perimetro si concentravano gli unici elementi umani nel raggio di chilometri; fuori restava il selvaggio, l’inalterato.
Un equilibrio segnato sia da una semplice recinzione che separa lo spazio degli esseri umani, che genera fascino, da ciò che di misterioso resta fuori, sia da una virgola quando si mette sulla stessa sponda «il selvaggio» e «l’inalterato» creando un richiamo più a una dicotomia che a una sinonimia: quello che genera timore insieme a quello che meraviglia. Ecco quindi che anche in questo libro torna lo scontro tra civiltà (il mondo degli uomini) e barbarie (quello delle bestie), percorrendo gli stessi binari dei grandi classici della letteratura latinoamericana, uno su tutti, Donna Barbara,{5} ma offrendo un’altra prospettiva: se in passato ci è stato presentato un confine invalicabile tra i due poli, poi è diventato col tempo più labile (per non dire ribaltato definitivamente), qui viene reso brumoso, come la nebbiolina che si forma alla fine della cascata, sancendo che se è vero che esistono i due principi, se esiste la dicotomia, allora entrambi i mondi hanno in sé sia il lato negativo che il lato positivo; tutto può essere “bestia”, ammesso che esserlo sia sempre un concetto negativo, come dimostra il romanzo.

Tutto ci viene raccontato con maestria, mediante una strategia narrativa che ha alla base la semplicità, che permette di trasportare l’idea in parola e viceversa. Le pagine sono un susseguirsi di caratteri che, come il tragitto di un fiume, attraversano tratti pianeggianti, ripide discese, spazi ampi e canali stretti. Ma la corrente, anche se l’acqua è trasparente, in certi passaggi non permette di vedere il fondo e la narrativa a tratti è così forte che si sente la necessità di un appiglio (un punto e virgola, un punto) che sembra non arrivare mai; si ha la sensazione che l’autore non voglia permetterci di fuggire: anche il lettore deve sentire addosso le forze che vivono nel racconto. Il fiume a livello stilistico è in piena, ha una forza inarrestabile; per questo il volume è stato insignito del prestigioso «Premio Clarín de Novela 2013».

Una idea creativa così, una scrittura così, in cui l’unione delle parole assume una forma originale, a volte spiazzante, appartiene più a testo poetico che alla narrativa. Per questo la traduzione del libro non è stata semplice: anch’essa non è stata esente dallo scorrere imprevedibile del fiume e del risultato devo ringraziare Martha Canfield, Laura Del Conte, Marco Lera e Chiara Agnelli per i preziosi suggerimenti; ma soprattutto lo stesso Fabián Martínez Siccardi che con gentilezza e pazienza ha risposto alle mie domande. La difficoltà non è stata tanto quella di cercare il significato delle parole, quanto quella di tentare di ricostruire il periodo senza arrestarne la potenza, senza suggerire né togliere, senza incanalare o arginare, mediando appunto tra la traduzione di tipo poetico e quella di tipo narrativo. L’una avrebbe forse appesantito il testo, l’altra alleggerito; il fiume nei due casi avrebbe avuto un tragitto troppo diverso dal percorso originale.

Bestie fuori è un corso d’acqua che scende dalla montagna e attraversa valli, a volte in modo dolce, ma spesso, proprio come nella famosa immagine di Dante del titolo, diventa una «fiumana ove ‘l mar non ha vanto», «quello orribile luogo, nel quale l’autore era da quelle bestie combattuto, [...] che non si può il mare vantare d’essere più impetuoso o più pericoloso»,{6} simbolo di un tratto della vita che è indispensabile percorrere per scappare da quello che si è, per arrivare al mare della vita nuova.



{1}Ricardo Güiraldes, Don Segundo Sombra, trad. di Luisa Orioli, Adelphi, Milano 1966.

{2}Questo volume si pone in continuità con altri titoli apparsi nella stessa collana che hanno il tema della natura al centro, per esempio: La lenta luce del tropico di Eugenio Montejo (a cura di Martha Canfield e trad. di Luca Rosi, 2006) e Gli elementi del disastro di Álvaro Mutis (a cura di Martha Canfield, 2014).

{3}Il termine “fuori” del titolo abbraccia quasi tutti i significati della parola: da riferirsi a ciò che sta nella parte esterna (le bestie si trovano di fuori), al movimento (le bestie vengono fuori), da ciò che viene lasciato al intenzionalmente fuori (tagliare fuori le bestie) al manifestarsi (le bestie sono fuori), fino all’ordine a uscire (fuori le bestie!).

{4}Fabrizio De André, Fiume Sand Creek, contenuta nell’album Fabrizio De André, conosciuto anche come L’Indiano, Dischi Ricordi, 1981.

{5}Rómulo Gallegos, Doña Bárbara, 1929; id., Donna Barbara, trad. it. di Carlo Bo, Antonioli, Milano 1946.

{6}Giovanni Boccaccio, Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio nuovamente corretto sopra un testo a penna, Tomo I, Magheri, Firenze 1831, p. 158.



Da BESTIE FUORI
di Fabián Martínez Siccardi
pp. 51-54 (capitolo IV)
Le Lettere, Firenze 2021


All’alba i latrati di Attila mi svegliarono. La luna illuminava ancora di più della notte precedente e fui in grado di vedere che la porta del deposito era sempre chiusa. Gli alberi si muovevano appena e il prato intorno alla casa rifletteva la luce grigia della notte con assoluta calma. All’inizio supposi che un topo o un altro animale piccolo fosse entrato a frugare tra i sacchi di farina, poi mi venne in mente che poteva trattarsi di una vipera o, peggio ancora, di una di quelle bestie di cui aveva parlato Haroldo. Inquieto, mi affrettai a vestirmi lottando contro le ferite che mi facevano male a ogni movimento.

Nel deposito trovai Attila contro la parete di fondo, che abbaiava e ringhiava nervoso a qualcosa che non riuscivo a identificare. Non si muoveva niente, si sentivano soltanto i suoi latrati. Appoggiai la lampada a petrolio sopra uno scaffale e lo afferrai per il collare per portarlo via dal deposito, ma oppose resistenza con una testardaggine inusuale. Feci qualche passo indietro e lo spronai a seguirmi, chiamandolo con il braccio teso e con parole che lo tranquillizzassero, ma neanche così mi ubbidì. Con la lampada feci luce sotto gli scaffali, il pavimento, le pareti... Continuai a camminare indietro e, una volta fuori, qualcosa mi fece voltare. Fu allora che vidi un uomo appoggiato all’albero che cresceva di fianco all’altro deposito.

La luna lo illuminava frontalmente. Era alto e magro, con giacca e cappello neri come sono soliti indossare i mandriani della zona la domenica. Si portò la mano alla bocca, e tra le dita la brace di una sigaretta illuminò un volto lungo, dalla pelle scura, con un’espressione imperscrutabile. Attila abbaiò con più agitazione e per un istante desiderai che Bastiana, o perfino Haroldo, uscissero a vedere cosa stava succedendo. Ma non si fece vivo nessuno, eravamo solamente io e lui. L’uomo mi guardava e fumava la sigaretta senza nessuna intenzione di muoversi, di avanzare verso di me o in direzione della casa, e questo rendeva cento volte più perturbante la sua presenza. Come al fiume – perché senza dubbio era la stessa persona –, si limitava a osservarmi. Che cosa voleva? Da dove era spuntato a quell’ora?

Mi si irrigidirono le gambe, le mani diventarono appiccicose, le tempie cominciarono a pulsare così forte da avere paura che mi scoppiasse una vena. Avevo voglia di gridare, chiedergli cosa ci facesse lì, ordinargli di smettere di molestarmi, ma muovevo la bocca senza che uscisse neanche una parola. La tensione continuò a crescere, mi si annebbiò la vista, mi fischiavano le orecchie ma, nel momento in cui il corpo sembrava sul punto di esplodere, mi sopravvenne una serenità insperata e cominciai a camminare verso di lui con una tale determinazione che ancora oggi non mi so spiegare. Ricordo ancora la varietà dei suoni – i passi sul prato, lo strofinio dei vestiti, ogni respiro amplificato decine di volte –, posso ancora sentire i forti odori che provenivano dal deposito, dal vento delle montagne, dal mio stesso corpo. L’uomo teneva lo sguardo alto. A metà strada afferrai un bastone con così tanta forza che mi feci male alla mano. Quando giunsi tra i due depositi, l’uomo schiacciò la sigaretta con il piede, si girò e camminò senza fretta verso la cima della montagna. Mi fermai davanti all’albero – non ebbi l’impulso di seguirlo –, e scagliai il bastone sul tronco con un tale accanimento che si frantumò in mille pezzi che volarono in aria.

Attila aveva smesso di abbaiare e si era rannicchiato in un angolo del deposito con la testa tra le zampe, tremando. Mi misi a sedere accanto a lui e lo abbracciai, gli accarezzai la testa, fino a quando si calmò, e fu allora che mi resi conto che quello che tremava di più ero io.

Passai il resto della notte nel deposito in dormiveglia, guardando verso la porta, attento a ogni rumore. Non appena fece giorno portai Attila alla rimessa e lo legai ai piedi dell’albero. Tornai nella mia stanza prima che si fossero alzati Haroldo o Bastiana, per riposare un po’.

Scesi a fare colazione tardi – sentivo i postumi di una sbronza – e trovai Haroldo già seduto a tavola. Augurai il buongiorno, buttai giù una tazza di caffè nero con un sorso e detti la colpa della faccia da insonne al dolore per le ferite che, tra l’ansia e i tremiti della notte, avevo appena riniziato a sentire. Bastiana apparve con un vassoio di fette di pane tostato coperte da un tovagliolo blu; ne presi una, ci spalmai burro e marmellata, e la mangiai con voracità. Haroldo volle fare la stessa cosa, ma il burro era così duro che, raschiandolo col coltello, riuscì solo ad allontanarlo; allora lo sostenne con la mano destra, ma il coltello continuò a spingerlo, trascinando anche il braccio invalido come se fosse morto. Fu un momento di disagio – un uomo adulto davanti all’impossibilità di compiere una funzione di così poco conto – e mentre mi dibattevo tra l’aiutarlo o l’impormi di non notare cosa stava accadendo, Bastiana tolse il burro dal recipiente, tagliò dei pezzi col coltello e li mise sul piatto di Haroldo. Dalla sua posizione silenziosa, anticipava le cose, vedeva più di quello che poteva sembrare; a quella casa aggiungeva non solo aromi e sapori.

La scena fugò via ogni proposito di raccontare a Haroldo quello che era successo la notte. Non solo mi mancava la forza per piegare la sua probabile incredulità – il suo scetticismo era stato brusco davanti al racconto dell’apparizione di una persona al fiume –; anzi, per quanto ne sapevo, non avevo un motivo concreto per allarmarlo. L’uomo si sarebbe potuto aggirare da tempo per il casale, senza avere cattive intenzioni. Quello che invece mi chiedevo era se Bastiana era al corrente di quella presenza, se era suo ospite, o il suo amante. E se lei teneva nascoste le visite – e poteva trattarsi solamente di visite perché era impossibile che lo nascondesse nella casa minuscola dove viveva –; parlarne con Haroldo avrebbe solamente creato una breccia nella fiducia per l’unica persona che si prendeva cura di lui, che lo teneva in vita.

Bastiana quella mattina sembrava più giovane, come se fosse poco più grande di me, e l’idea che avesse dell’intimità con quell’uomo, che aveva il triplo dei suoi anni, mi disgustò. Perché aveva incontri segreti con un tipo così?

Mentre riprendeva il vassoio vuoto del pane tostato per portarne ancora, Haroldo mi indicò qualcosa che era appeso sulla parete vicino alla porta d’entrata.

«Guardate l’orologio del meteo. L’uomo con l’ombrello sta uscendo dalla sua casetta».

«Arriverà una tormenta» aggiunse Bastiana.

Quell’ “orologio del meteo”, come lo chiamava Haroldo, era una casetta di legno con due porte; da una usciva un giovane sorridente ad annunciare giorni assolati e dall’altra un anziano serio con l’ombrello avvertiva dell’arrivo di piogge. Avevo visto congegni simili, ma era la prima volta che qualcuno lo chiamava in quel modo: un orologio che non misura né ore né minuti, bensì il meteo per lavorare, passeggiare al sole nella valle de La Guillermina, o per rimanere in casa e riprendere i panni stesi prima della pioggia. Rimasi a osservarlo fino a quando il giovane sorridente si nascose completamente dentro la sua casetta.

L’uomo stava cercando lo stesso effetto del vecchio con l’ombrello? – pensai improvvisamente – Stava facendo capolino solo per farmi andare via?


Fabián Martínez Siccardi, Bestie fuori, a cura di Marco Benacci, Le Lettere, Firenze 2021, 120 pagine, euro 12.




Fabián Martínez Siccardi
è nato nel sud dell’Argentina (Río Gallegos, Santa Cruz) nel 1964 e nella sua vita ha vissuto in varie città del Paese, in Spagna, negli Stati Uniti, fino a stabilirsi a Buenos Aires dove lavora come traduttore, scrittore e giornalista culturale.
Ispirato dalla terra natia, ha iniziato a scrivere racconti, molti dei quali hanno ottenuto importanti riconoscimenti: Memoria fotográfica (secondo premio «Hucha de Oro», 2003), El santo invisible (secondo premio «Ciudad de Zaragoza», 2005), Laika (premio «Alberto Lista», 2007) e, insieme a Arthur Rose, If then a man (finalista del «Glimmer Train Press», 2012).
Ha pubblicato in inglese i saggi autobiografici Patagonian Fox (Zyzzyva, 2018) e Feeling Southern (Granta, 2019). È autore dei romanzi Patagonia iluminada (SM Ediciones, 2012), Bestias afuera (Clarín/Alfaguara, 2013) che ha vinto il «Premio Clarín de Novela 2013», Perdidas en la noche (Tusquets, 2017) e Los hombres más altos (Alfaguara, 2021).


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