FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 52
maggio/agosto 2019

Sorelle & Fratelli

 

SORORANZE

di Viviana Scarinci



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Dieci gigli che non si sapeva da dove venissero, così freschi e uguali che noi non ce li abbiamo negli orti. Schierati uno dopo l’altro, un plotone stilante e candido. Uno per ciascuna come mai nessuno ne avesse dati a noi. E perdonate il peccato di orgoglio. Mi figuravo che fossi io ad averne dati loro. Uno scettro che nessun mortale poteva darci da vergini per renderci spose senza marito.


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Settimia, Lucrezia, Clarice, Veronica, Anastasia, Ludovica, Cecilia, Caterina, Lavinia ed io.


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A essere forestiere sono due, le altre sono mie parenti di sangue o acquisite, nate poco più in là di quella piazza che fra poco si aprirà a forza che noi brandiamo i nostri scettri fioriti e diventiamo ancora più incomprensibili ai loro occhi. Ancora meno femmine, ma Sante, da chinarsi al nostro passaggio perché ci accompagna la confraternita. E sua signoria l’Abate di Norcia ci aspetta sulla soglia di un monastero di clausura di diretta proprietà del signore Iddio, e nostra, perciò inviolabile a profani.


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Ora quel tempo che mi condusse a questa cella a me pare fosse di preparazione al mio nascere. Il tempo che ad altri sembra quello di una vita che conduce alla morte, per me è stata una lunga gestazione nella quale mai vidi luce oltre il chiuso grembo di una madre che visse senza lasciarmi nascere. Nel suo grembo mi pare di essermi lungamente dibattuta lontanissima dall’essere vista. Così come sento dibattersi Settimia, l’altra figlia di Ortensia, lei sorella mia anche di sangue. Povera Settimia destinata a non saper cercare altrimenti che in me. Si dibatte entro la sua prima notte di clausura disperata e eternamente penitente di non avere mai peccato. Sbattono contro il muro le due tavole che le fanno da giaciglio, separate dal mio, da un tramezzo. Si dibatte in un muto combattimento con se stessa nello stanzone accanto con tutte le altre, che forse dormono, forse no dibattute esse stesse, ed io sola al di qua, poso il capo già canuto in attesa del sonno che non viene.


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È qui che finalmente ha inizio la mia storia, in questa prima notte di clausura in cui il vento scuote coscienze, carni e animali notturni come se il caos volesse di nuovo inghiottire i frammenti di una storia precedente al vivere, senza diritto né speranza, altrimenti che se venisse narrata.


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Quando ero piccola, sentivo una continua ispirazione che io dovevo essere qualcuno che si trovasse lì tra quelli, senza per questo essere di quelli. Mi credevo essere nata per qualcosa che non fosse il destino di maritata ma non conoscevo altro destino. Secondogenita vidi nascere tra il molto sangue sparso da Ortensia nell’unica stanza di casa, uno dopo l’altro cinque tra fratelli e sorelle oltre il primogenito Giovanni che tosto se ne andò a cercare fortuna altrove così facendomi la maggiore di sei. All’età di quattro o cinque anni mi trovai in compagnia di molte piccole femmine. Padri e madri quasi tutti andavano alla campagna che era ancora notte e noi restavamo al paese che ci guardavano i vecchi. Io allora maggiore di Settimia, la guardavo, e me e le altre ci guardava mia nonna Cleofe. A me non piaceva stare in compagnia, né piaceva mia nonna Cleofe. Vedevo l’inesplicabile nella varietà delle creature e mi tormentava il non saperne, volevo spiegazione ma non c’era nessuno che me ne desse. Perciò a un dato punto di quell’età, mi venne una tale violenza nel sapere che non sapevo e che nessuno sapeva, tanto che per molto tempo fui una bambina cattiva e più di tutto fui cattiva in silenzio per mezzo di azioni sguaiate.


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Guardavo per ore il giorno e la notte dalla finestra che dava sulla valle, sulle sue varietà animali e vegetali, con uno stupore di prima volta, come se quelle nature di civetta, quercia, cardo mariano non potessero uscire dall’esser create così, come l’essere di bassa statura o di molta carne e per alcune bambine, essere alte e di capelli fulvi, non potesse essere altrimenti che quello e nient’altro. E questa regolarità, questa incomprensibile quiescenza delle forme definitive non so dire quanto mi turbasse. Chi diceva allora di me che ero cattiva, io ora dico che avevo paura del vedere e non sapere dire quello che vedevo. Avevo paura del vedere e non saper credere al definitivo essere delle forme altrui allorché della natura, io percepivo come un rumore continuo del suo moto, entro tutti i miei passi nervosi. Paura che poteva essere solo consolata da un silenzio il quale, in certi specialissimi e rari momenti mi assaliva come da fuori e mi veniva rimesso come un peccato da colui che sa tutto e ti perdona, profondendoti l’unica pace in grado di ristorarti. Dio sei forse tu quello?


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Solo tempo dopo quei poveri cinque anni miei in cui non avevo parole per definire le cause di tutto quello sgomento, un Santo, tra quei santi veri e falsi che incontrai prima di nascere in religione Teresa di Maria e Gesù, mi disse che l’eccezione, a tutta quella incomprensibile e spaventosa regolarità che sembra pascere indisturbata dentro le forme visibili, è fatta di un silenzio inumano che non tutti chiamano Dio. E solo un certo rarissimo intento nostro può farsi carico di quell’eccezione, potendo brevemente spezzare il tacere, con scarse parole e scarsissime opere. Perché è quello che viene dopo il molto inumano silenzio, a far nascere, come per caso, il non ancora nato dentro e fuori di noi, poverelli di ogni censo che tutto pare costringere a ingannevoli forme definitive.


Dal libro inedito: prose preparatorie per un poema diversamente picaresco


vivianascarinci@gmail.com