FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 36
ottobre/dicembre 2014

Mare

 

COMINCIANDO DAGLI ULTIMI

La riedizione del libro di John Ruskin chiarisce alcuni luoghi comuni del movimento anti-capitalista inglese a metà Ottocento a riapre i conti con un futuro possibile.

di Marco Testi



Il vincitore assoluto, unico rimasto sulla scena planetaria a godersi – si fa per dire – i frutti del suo trionfo non ha avuto solo Marx tra i suoi nemici. Tra utopisti più o meno socialisti e socialisti più o meno utopisti, sognatori, millenaristi, e comunque avversi ad un capitalismo allora alle prime avvisaglie, ve ne è stato uno insospettabile, perché John Ruskin è ricordato soprattutto per le sue Pietre di Venezia, 1853, modello di molte avventure tra il nostalgico e la sperimentazione utopica, e soprattutto per essere stato considerato il grande avvocato dei Preraffaelliti contro le feroci critiche di parte dell’intellighenzia vittoriana.
Nel ritorno a prima dell’industria, alla bottega e alle chiese gotiche si nascondeva il sogno di una società quasi perfetta, in cui anima e corpo potessero fondersi in una superiore finalità: la giustizia, l’accordo con la realtà in cui anima e corpo riuscissero a ritrovarsi contro il materialismo positivistico e la ricerca della felicità. Non è un caso che lo stesso Ruskin si sia impelagato in progetti palingenetici e in tentativi comunitari e utopistici che, se è vero che naufragarono, mostrarono tuttavia la persistenza del grande progetto di coniugare lavoro e benessere, fatica e dignità. Perfino Gandhi ha scritto parole semplici ma lapidee su questo singolare personaggio della cultura inglese di metà Ottocento, riportate giustamente nell’introduzione di una raccolta di discorsi e conferenze di Ruskin, Cominciando dagli ultimi, presentato ora in Italia dalla San Paolo con una prefazione di Luigino Bruni.

L’interesse di questo libro, che risale al 1862, sta nella paradossale “aggressività” che si intuisce, a ben leggere dalle righe di tutti gli interventi, anche e soprattutto quello del Mahatma. Intendiamoci, aggressività significa qui chiarezza estrema nella denuncia dei mali del capitalismo in ascesa a metà Ottocento, come quando Gandhi afferma, in una prefazione della ristampa del 1908, che “I popoli occidentali sono generalmente convinti che tutto ciò che un uomo deve fare sia promuovere la felicità, (…), una felicità da considerarsi legata soltanto a parametri fisici e di prosperità economica”. Troppo facile per Bruni, nella sua introduzione, parlare delle conseguenze di quella ricerca di felicità, che possono essere racchiuse nella temuta sigla Pil, il prodotto interno lordo che ha fatto inarcare il ciglio perfino negli ambienti ex-presidenziali degli Usa.
Bruni rimarca, anche lui, il fatto che il famigerato Pil sia un concentrato di sangue sudore lacrime e illegalità, basta che manifesti qualsivoglia forma di “ricchezza”, e si chiede giustamente “che cosa hanno di buono la pornografia o la prostituzione?”. Droga e sfruttamento sono davvero “beni”? A questa domanda risponde – ma anticipando profeticamente la risposta di ben centocinquant’anni – il teorico del ritorno al medioevo: il lavoro deve significare la dignità e la creatività, la cooperazione e nel contempo la rivelazione dell’apporto individuale. Se questo lavoro porta alla malattia e all’abbrutimento, allora esso deve essere rimesso in discussione perché significa che l’uomo sta andando in una direzione sbagliata e sta operando in senso auto-lesionistico. E talvolta va oltre la retorica estetizzante per raggiungere una dimensione quasi profetica:

Quando ci si riferisce alla massima di popolazione in una certa area si intende che essa abbia bisogno anche del massimo dei vegetali commestibili per gli uomini e per il bestiame, del massimo dell’aria pura e dell’acqua pulita. E quindi serve il massimo del terreno boschivo perché vi sia aria ripulita e un declivio protetto dalla vegetazione contro l’eccessiva calura del sole perché possa ingrossare i corsi d’acqua. Tutta l’Inghilterra può, se decide di farlo, diventare una città industriale, e tutti gli inglesi, sacrificandosi per il bene generale dell’umanità, possono togliere valore alle proprie vite passando i loro giorni in mezzo al rumore, all’oscurità, alle esalazioni mortali. Il mondo, però, non può diventare una fabbrica, e neppure una miniera.

Dopo queste parole, scritte alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, ci sarebbe ben poco da aggiungere se non fosse che Ruskin fa una serie di osservazioni altrettanto affascinanti sulle cause, ma pochi lo intuirono, di quello che sarebbe divenuto l’imbarazzante caso della salute del nostro pianeta nel terzo millennio. Intanto queste osservazioni sono attraversate da una straordinaria aura religiosa che non toglie vigore e senso a questa sorta di memento profetici ai posteri, anzi, mostra come gli attacchi alle ottiche capitalistiche che Ruskin vedeva concentrate soprattutto in Ricardo, Malthus e Stuart Mill abbiano praticato strade diverse da quelle battute dal Marx del Capitale. Certo, l’autore delle Pietre di Venezia sembra molto meno attrezzato metodologicamente rispetto alle analisi marxiane dell’accumulazione capitalistica, ma l’idea che ci facciamo oggi di questa “inattualità” è che non sia un limite, ma un possibile pregio: l’idea che ci siamo fatti della razionalità della costruzione dell’alternativa al capitalismo da parte del comunismo realizzato è che ci sia stato qualcosa che non andava. Questo qualcosa potrebbe essere l’equivoco o l’illusione di una possibile razionalizzazione assoluta di un sistema, come quello umano, che non è proprio passibile di razionalizzazione permanente, Non è un caso che il materializzarsi dei piani quinquennali nell’Urss sia coinciso con misure estreme che a loro volta hanno oltraggiato quella dignità che i loro fautori pretendevano di realizzare con la forza bruta. Se qualcuno vedesse nella scientificità del marxismo un vizio d’origine, una contraddizione in termini (dopo Heisenberg per alcuni non si può neanche parlare di scientificità della scienza) in una disciplina umana in cui l’osservatore è parte in causa del fenomeno che si pretenderebbe di osservare obiettivamente, avrebbe pienamente ragione.

Il sogno di palingenesi umana del Novecento ha creato gli incubi che sappiamo proprio perché si poneva come fine ultimo e oggettivo, contraddicendo la soggettività della ricerca e dell’essere parte integrante di una realtà non del tutto conoscibile e per di più in continuo movimento.
Se si vedono le cose da questa prospettiva, allora il sogno di palingenesi di Ruskin, di Morris e di alcuni tra i preraffaelliti assume la stessa dignità e la stessa autorità di quello del cosiddetto marxismo scientifico. Anzi, potrebbe essere addirittura visto come una nuova base di partenza, seppure datata (ma, se è per questo, anche Marx e Lenin sono datati) per un progetto che tenga conto delle vite umane e non ritenga necessario un olocausto di nemici e perfino ex-amici con la scusa delle superiori finalità del paradiso sulla terra, e quindi obiettivamente e umanamente superiore a quello realizzato nel socialismo reale dal 1917 in poi.

Il ritorno al medioevo non era un ritorno, ma un punto di riferimento storico, tangibile, reale, anche se venato dall’inevitabile distorsione ideologica: l’età di mezzo, non in toto, ma nella parte culminata nell’epoca dei comuni e delle signorie, era un modello di cui si conosceva anche la pars destruens, la selvatichezza dei costumi, la scarsa igiene, la legge del più forte (che non risulta essere mai tramontata sugli orizzonti umani), ma rappresentò per loro soprattutto una atmosfera in cui il lavoro artigianale era il culmine di una concezione di civiltà legata alla nobilitas non di nascita ma d’animo.
L’artigiano e il mercante, come raccontano alcune pagine del Decameron, non avevano distrutto l’etica alto-medioevale, ma l’avevano anzi salvata, adottandola alle nuove esigenze di una borghesia attiva e produttiva, che viveva del proprio lavoro. Ruskin ha di fronte a sé non un sogno, ma una realtà tangibile e essenziale, quella del rapporto dell’uomo con l’altro, con la società e con la natura. Se se lo poneva a metà Ottocento vuol dire che questo rapporto è la base reale, condicio sine qua non per una dignitosa sopravvivenza della specie umana.

Come abbiamo visto poc’anzi, già nell’Ottocento Ruskin si poneva il problema dell’inquinamento e della distruzione della salute attraverso un lavoro non più a misura d’uomo: per questo il suo messaggio è molto più reale, attuale e “materiale” di quanto possa apparire nelle fumose e a-storiche ricostruzioni dei progetti palingenetici dei preraffaelliti che avevano in realtà coscienza storica delle differenze sociali e culturali tra la loro epoca e il basso medioevo.
Ma non solo economia: Ruskin, insegnando a molti semplificatori come sia doveroso strappare via i luoghi comuni legati agli intellettuali del periodo, dipinti tutti come estenuati esteti borghesi, prende di petto anche la cultura del tempo (iniettandoci il sospetto che non sia solo quella del suo tempo ma la cultura “borghese” in sé): essa non è più in grado non solo di leggere, ma di contribuire a cambiare il mondo. Il suo sguardo non è più proiettato in una utopia culturale di raffinatezza separata dal mondo, ma si abbassa, si guarda intorno fino a cogliere il senso di alcune parabole evangeliche che gli stavano molto a cuore (Fino all’ultimo ne è intriso radicalmente) e si accorge finalmente della presenza reale, tangibile, ineludibile degli ultimi di cui stava scrivendo, ma intesi fino a quel punto come progetto, discorso. Alla fine del libro il teorico si sveste dei vecchi abiti e predica la superiorità dell’altra cultura, intrisa di povertà non solo evangelica, come se questa fosse forse l’ultima possibilità di redenzione materiale:

Perché l’uomo non vive di solo pane, ma anche della manna del deserto, di ogni parola meravigliosa e dall’inconoscibile opera di Dio. Felice di questa ignoranza che lo lega ai suoi padri, mentre tutto quello che lo circonda raggiunge però l’infinito, lo stupore della sua esistenza.


John Ruskin, Cominciando dagli ultimi (titolo originale Unto this last), traduzione di Riccardo Ferrigato, San Paolo, 2014, 125 pagine, euro 12.




John Ruskin
(Londra 1819 - Coniston, Lancashire 1900), scrittore e critico d’arte britannico, esercitò una profonda influenza sul gusto e sul pensiero degli intellettuali dell’età vittoriana. Nato a Londra ed educato a Oxford, fin da giovane ebbe dal padre, un ricco mercante, incoraggiamento a perseguire l’amore per l’arte, la letteratura e i viaggi. La sua vita è raccontata nell’autobiografia Praeterita (1885-1889). Il tema prediletto da Ruskin, quello del rapporto tra arte e morale, fu esposto per la prima volta nel primo volume di Pittori moderni (pubblicato nel 1843), saggio in cui l’autore assunse le difese di J. M. W. Turner, artista allora molto controverso. Questo volume fu seguito da due monumentali opere sul significato religioso, morale, economico e politico dell’architettura domestica: Le sette lampade dell’architettura (1849) e Le pietre di Venezia (1851-1853).
Nel 1851 Ruskin si avvicinò al movimento dei preraffaelliti, difendendone i principi ispiratori; fu amico di artisti quali Dante Gabriel Rossetti, Edward Burne-Jones e John Everett Millais. Nelle sue numerose conferenze denunciò gli effetti negativi, sia dal punto di vista estetico sia dal punto di vista sociale, della rivoluzione industriale sostenendo che l’arte, essenzialmente spirituale, aveva ottenuto i risultati più alti con il gotico del tardo Medioevo, quando era dettata da motivazioni religiose e morali.
Tra le sue ultime opere si ricordano due volumi di lezioni, uno sull’architettura e la pittura (1854) e uno sull’economia politica dell’arte (1858), e Fors Clavigera (1871-1884), una raccolta di lettere ai lavoratori inglesi che avrebbe influenzato tre generazioni di riformatori socialisti.


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