FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 36
ottobre/dicembre 2014

Mare

 

SPONDE

di Francesco Tarquini



Tra le due opposte linee di attacco agli spaghetti alle vongole, lo sai, io seguo da sempre quella che consiste nel liberarsi subito di tutte le valve, rinviando di un po’ il delizioso momento in cui si infilerà la forchetta e si comincerà ad arrotolare. Dopo andiamo a cena lì, aveva detto Gennaro indicando con un gesto il ristorante, si mangia benissimo, aveva detto, dopo averci accolto con la cordialità del padrone di casa all’approdo del battello nel tiepido pomeriggio d’autunno. E proprio quando ebbi infilato la forchetta mi venne in mente che anche tu preferivi quelle piccole, così gustose, sparse senza parsimonia fra gli spaghetti abbondanti e di perfetta cottura. Fra una sedia e l’altra doveva esserci ancora un posto vuoto, magari vicino all’ingresso, e a un certo punto – arrivare in ritardo è sempre stata una delle tue abitudini – avresti potuto entrare, tutto fradicio di pioggia, e andare a sederti lì. Ce l’hai fatta ad arrivare, ti avrei detto, dai, ordina subito, senti queste vongole.

Ce lo siamo sempre detti, la memoria è un elastico che bisogna tirare, di quando in quando, perché non rinsecchisca in fondo a un cassetto; ed è forse anche per questo che ti sto raccontando questa storia che affonda negli anni. Ci eravamo imbarcati in un limpido mezzogiorno, e sulla nave, dopo i saluti, gli abbracci, i caffè in compagnia degli amici, mi era venuta voglia di star solo; ero dunque andato a sedermi a poppa, a contemplare lo srotolarsi uniforme della scia sull’acqua appena increspata, lasciandomi andare al sottofondo del motore. La costa si dipanava in un luminoso ricamo di spuma, baie, scogli, alture; e a un tratto ci venne incontro lentamente una torre a mezza costa; per un po’ fantasticai che ci stessimo accostando a un’isola, simile ad altre isole e in fondo sempre la stessa isola, l’isola greca dell’immaginazione liceale; perpendicolare, ripidissima, tutta raccolta su se stessa, alla quale si aggrappava il paese risalendo dal porticciolo lungo le pendici a raggiungere la sommità rosicchiata da rade nuvole irrequiete, che scendevano a lambire i tetti e le terrazze.

L’appuntamento è alle sette, aveva detto Gennaro, abbiamo il tempo di farci un giro, e allora ci mettemmo a passeggiare per le stradine strette fra case bianche, azzurre, rosa, macchiate di bouganvillee; e mentre mi affannavo per quei tornanti sui quali da ragazzo ti arrampicavi come una capra, mi venne in mente un altro sentiero, su un’altura a picco: un altro tempo, un’altra scogliera e gli stessi profumi, frinivano le cicale di giugno nella macchia e anche quel giorno eri arrivato in ritardo e la tua macchina aveva i freni rotti, una delle ragazze si slogò un piede e nessuno di noi aveva pensato a prenotare un albergo, così passammo la notte in una pineta al bordo di una strada provinciale.

Di certo non ero il solo a rimuginare ricordi, tuttavia, confusi fra i gruppi di turisti, seguitammo a chiacchierare amabilmente come fossimo lì per una gita, e nessuno diceva una parola sull’appuntamento imminente, alle sette, aveva detto Gennaro, al tramonto, ci vogliono due barche. Però le stavamo aspettando, le sette, e io guardavo di tanto in tanto l’orologio, un po’ di sfuggita.

Alle sette ci affrettammo dunque verso la spiaggia, a imbarcarci per mezzo di una passerella malsicura, e prendemmo posto sulle barche, accolti dai brevi saluti sommessi dei barcaioli. Quello della barca in cui ero salito stava fumando, e dopo che ci fummo sistemati tutti gettò in acqua la sigaretta lasciata a metà. Si misero a remare allontanandosi in fretta dalla riva con ripetute occhiate al cielo che inaspettatamente si oscurava, lasciando alle nostre spalle il paese dove si accendevano le prime luci e i bambini, con i piedi nell’acqua, si attardavano nei loro giochi prima di cena. Sulle barche si udiva soltanto lo sciacquìo dei remi; se ci scambiammo qualche parola forse solo per rompere il silenzio, ora non saprei dire; ricordo solo gesti quasi impacciati, sguardi, qualche sorriso. E molte sigarette. Lentamente ci avvicinavamo ai resti della torre dalla quale da ragazzino certo fingesti di spiare anche tu l’assalto dei pirati saraceni; e il cielo, fino a un’ora prima luminoso, si era fatto fosco di nuvole; presto, fate in fretta, dissero i rematori, eravamo già sotto la torre e loro si tenevano alla stessa distanza remando piano con movimenti sapienti, in tondo, arriva la tempesta, ma cosa può fare una tempesta a Positano a te che hai solcato ogni miglio di questo mare sulla tua barchetta di adolescente, e ti sei spinto più tardi ben oltre le isole egèe. Il mare stava cambiando colore, era color petrolio, adesso, spiccavano scuri gli scogli delle Sirene, quante volte avrai visto te stesso legato invece di Odisseo all’albero della nave; però non cantavano, adesso, le Sirene, non c’era bonaccia ma il raglio triste delle onde e il rombo del tuono e lo stridìo di una corda d’acciaio tesa dalla prua alla cima dell’albero. Lottavano, adesso, i barcaioli, per mantenersi fermi e in equilibrio intorno a quel punto sfuggente nell’acqua. C’era poco tempo, dissero. O gridarono, forse, e forse solo allora mi accorsi che pioveva, un torrente dall’alto e la notte tra i lampi, come per dare ancor più solennità a ciò che su quei pochi metri di mare avevamo appena compiuto; e quelli già si affannavano sui remi; e anche se non eravamo troppo lontani dalla riva sbarcammo con le scarpe piene d’acqua coprendoci alla meglio con giacche e giubbotti e ci mettemmo a correre verso il ristorante sulla sabbia inzuppata.

Mi torna spesso in mente, il tuo gusto per le vongole. Se fossi stato lì con noi ti sarebbe piaciuta anche quella grigliata enorme. Saraghi, fragolini, orate, mazzancolle. Non so se anche allora mi ricordai, come adesso, della “genovese”, tuo piatto di battaglia, quel tuo grembiule e il profumo del sugo sui paccheri, e il colore aranciato del pezzo di carne fumante; ti affaccendavi in cucina e mentre parlavamo io guardavo come si muovevano le tue mani, che mi sono apparse sempre così forti. Ne erano, ne sono passati di anni da quando avevamo la mania della cucina cinese, e pasticciavamo vivande esotiche, piene di spezie, per far colpo su certe ragazze dalle lunghe gonne, profumate di pasciulì; io non sapevo fare una frittata e non so farla bene neanche adesso. Davanti a quel grande vassoio odoroso di mare mi tornò in mente con pena il piacere diverso che mostravi per quei piattini prelibati che aspettavi goloso ogni giorno, e che spesso finivamo per mangiare insieme a te, seduti a quel tavolino basso, accanto al letto sfatto dell’hospice, di fronte a quella finestra dalla quale si vedevano, vicini e tuttavia lontani come da un treno in corsa, i pini del colle Oppio. Un piacere rabbioso, come se il loro sapore ti apparisse di tale intensità da farti male.

Un altro lampo lacerò il cielo buio. Ha voluto fare le cose in grande, commentò uno di noi e tutti scoppiammo a ridere, finalmente, come liberati, consegnati alla leggera ebbrezza prodotta da quel vinello bianco, gelato; sì, ti stavi facendo notare, convenimmo, era uno scenario davvero degno di te. E in quell’atmosfera distesa affiorò l’immagine appena un po’ sbiadita dal tempo di noi bloccati in mezzo all’acqua, ci eri rimasto proprio male, quella volta, la riva era lontana e non riuscivi a far ripartire il motore, le ragazze simulavano divertimento e io mi ero messo a sventolare la camicia, quelli del motoscafo arrivarono a tutta velocità e ci trainarono fino al molo, un po’ spocchiosi. Altre immagini si affollavano inseguendosi l’una nell’altra, mentre continuavo a versarmi da bere; un ritorno in macchina di notte e tu ti addormentavi al volante e io dovevo tenerti sveglio e non sapevo più cosa inventarmi dato che cadevo dal sonno anch’io, chissà quanti caffè abbiamo preso, ci fermavamo a ogni stazione di servizio.

Quante parole sono state dette fra noi. Sulla vita e sulla morte e sull’amore; una volta mi hai chiesto ma tu cosa cerchi nel sesso, l’assoluto, ti ho risposto, mi hai guardato con quella certa espressione severa, sei pazzo, hai commentato. Ne abbiamo riparlato, tanti anni più tardi. Non ricordo cosa ci siamo detti. Parlavamo a lungo, e a volte ti piaceva affermare un rigore senza scampo. Mi raccontasti un giorno di un’isola, nel gelo del Polo Nord, che vedesti coperta di fiori: vita che si aggrappa a se stessa e non ha bisogno quasi di nulla. L’ho poi trovata sulla mappa, ed è forse anche a causa sua che immaginai fosse un’isola a venirci incontro, mentre approdavamo.

Non ero mai stato prima nei luoghi del tuo passato, ma mi era venuta in mente una parola, nostos, mentre la nave si accostava lenta alla banchina, quel pomeriggio. Anche ora, ricordando, è la stessa parola a venirmi incontro. A differenza del poeta infatti tu l’hai toccata la tua Zacinto, le hai toccate le tue sponde, sacre o non sacre: quando sulla barca oscillante fu aperta l’urna e vi immergemmo le mani: ed era calda, non sembrava cenere, aveva piuttosto la consistenza spessa della terra, mista a granelli più grossi, pietruzze, sassolini, e la mano ne era tutta riscaldata. E mentre con gesto largo, uno dopo l’altro, consegnavamo quella terra al mare, ci accorgemmo dell’alone luminoso che circondava le barche e le seguiva, spostandosi con noi sotto la torre. Dall’altra barca, ritti in piedi, ci guardavano, e nei loro visi si rifletteva il nostro stesso attonito stupore. Gridai, allora; o meglio sentii la mia voce chiamare il tuo nome sull’acqua; e non ero nemmeno sicuro che fosse la mia voce, o piuttosto un suono che saliva dalle viscere del mare. Non le inghiottiva, le tue ceneri: si adagiavano sulla sua superficie simili a petali di fiori, confondendosi con i fiori che andavamo gettando ad uno ad uno. E fu allora che risuonò il primo rintocco di campana, e in breve tutto il paese si riempì di scampanìi che si fondevano in contrappunto con il tuono.

Finimmo di mangiare anche il dolce, con furia. Bevemmo spumante e brindammo al tuo nome. Chiesi a qualcuno accanto a me una sigaretta. Guardavo la pioggia dalla vetrata del ristorante, vedevo la riva invasa dalle onde, e mi dissi ancora una volta che dovevo smettere di fumare. Gennaro aveva prenotato per noi l’albergo migliore, stanze immense e terrazze dove l’indomani ci saremmo detti arrivederci, ci saremmo stretti di nuovo la mano, ci saremmo scambiati un’altra volta abbracci cercando di allungare il tempo come un elastico. Ricordai mentre stavo fumando come cercavi, in certi giorni, di intervenire nelle nostre vite, con un desiderio febbrile di lasciare ogni cosa in ordine. E come dichiaravi, altre volte, il tuo dispetto nel sapere che avremmo continuato a vivere.

Non pensai, quella sera, alle bandiere della nostra giovinezza. Non siamo diventati migliori e il mondo neppure. Perché guardi così spesso l’orologio? mi chiedesti una volta. Non guardo l’orologio. Sì che lo guardi. Mi scrutavi con quello sguardo spiritato che avevi in quei giorni. Scusa, sono stanco, mi si chiudono gli occhi, dicesti dopo un silenzio breve: e io sapevo che lo dicevi perché non mi sentissi in colpa se me ne andavo via.


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