FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 5
gennaio/marzo 2007

Alterazioni climatiche

LA NATURA SOGNATA DI GIORGIO VIGOLO

di Magda Vigilante


Fin dall'esordio, la natura occupa un posto centrale nell'opera in prosa e in versi di Giorgio Vigolo (1894-1983). Gli elementi naturali: boschi, montagne, fiumi, paesaggi non solo suscitano intense emozioni nell'animo del poeta ma ne permeano anche l'inconscio da cui affiorano nei sogni. Questa profonda adesione al mondo della natura non avviene tuttavia solo in chiave idilliaca, ma comporta anche la percezione degli aspetti oscuri e inquietanti posseduti dalla natura.
In particolare i testi giovanili presentano spesso una visione apocalittica della natura con le sue forze scatenate contro l'umanità. Nella prosa lirica Ecce ego adducam aquas, primo testo edito di Vigolo1, con stile altamente drammatico, il giovane autore descrive l'avvicinarsi di una terribile tempesta - dopo il suicidio di due giovani amanti - sul paese dove è avvenuto il drammatico episodio, la quale si trasformerà in un nuovo diluvio, a causa delle colpe degli uomini, e non risparmierà né i popoli, né le metropoli, né "le basiliche e le supremi torri". Prima che si scateni la catastrofe, l'autore lancerà - ma non varrà il suo grido - un ultimo disperato ordine "- Ma Tacetevi -" e l'invito a guardare dalla finestra aperta sui corpi riversi degli amanti il fugace bagliore delle candele "che insanguinano il turbine, ma non si spengono ancora".
Sulla stessa linea, il testo edito con altri, sotto il titolo Bivacco dei verdi2, ricorre ad una serie di metafore di gusto impressionista - tra le quali spicca l'immagine di... "un sipariuccio sgargiante da pochi soldi" che "stona all'orizzonte come il belletto su un viso di prostituta in gramaglie" - per descrivere una terra da cui sono spariti gli uomini e che è tornata ad essere abitata da creature mostruose, come "un gigante che parla in sogno addormitosi dalla parte del cuore". Alla fine del testo, di nuovo, si scopre la presenza dell'autore, stavolta confinato per sempre nella sua solitudine: "io solo appollaiato su questo pagliaio...".

Questi primi componimenti poetici risentono della lezione appresa da Rimbaud - le cui Illuminations Vigolo aveva tradotto nel 19143 - e utilizzano la modalità espressiva del "frammento", breve testo dove l'autore registra le sue impressioni nella loro immediatezza. In seguito le tonalità più decisamente surreali, caratteristiche delle prose liriche apparse sulla rivista "La Voce", si stemperano in una visione onirica della natura che è uno dei motivi principali della raccolta poetica Conclave dei sogni4.
Tuttavia già in alcuni testi degli anni '20, recentemente pubblicati5, è annunciato il tema della natura sognata. Emblematica in tal senso la prosa Amore per la sorgente6 dove il protagonista trascorre la giornata in preda ad un crescente e incomprensibile estraniamento fino al sopraggiungere della notte quando si dispone "con cuore devoto al sonno quasi per preparar[si] a ricevere una grazia singolare" che coinciderà con l'intima unione tra il sognatore e una misteriosa sorgente di cui è presente l'oscuro richiamo.
Inizia così il viaggio che lo condurrà dalle viscere della terra fino al "piccolo cespuglio di aghi di ghiaccio...ove gem[e] la prima lagrima della sorgiva". Lì avverrà la fusione panica con "la femminea essenza" della sorgente, descritta come un rapporto erotico in cui l'uomo assorbe la "femminilità terrestre di quella creatura elementare" e la piccola vena d'acqua rifulge a lampi "della maschile foga umana" che l'attraversa.

Nella raccolta Conclave dei sogni è avvenuta, invece, l'opera di decantazione del materiale magmatico appartenente alla realtà esterna o interiore che affiora nella poesia ancora in tutta la sua incandescenza. Il componimento Settembre7 richiama ancora il tema del sogno, ma stavolta prevale la dolcezza del ricordo d'una stagione beata cui abbandonarsi quasi in un abbraccio materno. Tutto acquista una magica luminosità e leggerezza: (...) "Dietro le spalle un oro / sereno sentivo dal mare / invisibile. // Al sol cadente i cupi / massi di musco avvolti / parean tenere e pure / materie d'un più lieve / pianeta...", nel processo di progressivo affinamento anche espressivo che introduce alla nuova fase poetica.
Non può mancare però l'altro speculare versante del mondo naturale e umano, quello della tenebra e della malinconia, quando i boschi con la loro connotazione di vigore e splendore sono dimenticati, come afferma la poesia Cocchio8 dove al "Buio mattino di novembre, spenta / giornata in acque uguali..." corrisponde un neghittoso sognare di andare "su carrozze trainate/ da neri galoppi / in campagna." Qui ormai il sole non appare più e i boschi stanno dimenticati, mentre il sognatore "[r]iverso sul bruno / cocchio, " regna su "questo paese / deserto in piogge eterne". Il componimento si chiude con la visione di un mondo desolato e disabitato già incontrata nei testi esaminati in precedenza.

Prima di pubblicare Conclave dei sogni, Vigolo aveva dato alle stampe, nel 1931, il volume Canto fermo9 che riuniva sia prose liriche che poesie. In una di queste prose, intitolata Senza tempo10, si evidenzia una particolare funzione che l'autore attribuisce alla natura. Il poeta s'incanta "alla svolta di una strada di campagna costeggiata dagli olmi" dove in apparenza non c'è nulla di speciale "[m]a nella luce chiara e ferma del meriggio questa vista tanto semplice aveva una tranquillità così antica e immutabile che m'ha rapito come un'apparizione". Gli sembra, anzi, di essere già stato in quel luogo, mentre è sicuro di non averlo mai visto prima.
All'improvviso però comprende la singolare sensazione che prova: "[i]n quella strada di campagna nulla v'era che non avesse potuto trovarvisi tale e quale anche tremila anni prima; nulla che in qualsiasi modo richiamasse alla mente il tempo in cui viviamo". La semplice scena sospendeva il trascorrere del tempo cronologico e immetteva in quello kairologico11 nel quale erano compresi "tanto l'oggi, che l'ieri, che il domani" senza contrasti, ma resi uguali in armonia, "come la curva del fiume ove l'acqua sempre diversa scorre con gli stessi disegni e con lo stesso colore".
Lo spettacolo della natura concede all'uomo di andare al di là del tempo presente e di volgerlo verso una trascendenza che tutto contiene. La città, invece, osserva Vigolo, "apre nel tempo spiragli limitatissimi, attraverso i quali non ti è dato scorgere che il più ristretto presente sempre in rissa con il più recente passato. Le vie cittadine col loro continuo cambiar d'aspetto, d'anno in anno, di mese in mese, servono quasi da meridiane della Storia per segnarvi continuamente che ora è; impongono un'ora eguale per tutti ed è impossibile regalarvisi un tempo fantastico e personale". Con queste acute considerazioni, il poeta predice l'attuale condanna dell'uomo contemporaneo, sempre più costretto ad abitare nelle megalopoli dove l'ora della storia batte solo il tempo del lavoro impedendogli di spaziare oltre, verso la trascendenza.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, con un lungo richiamo alle armi, produsse una frattura profonda nella vita di Vigolo, che lo costrinse a trovare un nuovo significato alle drammatiche esperienze in cui era coinvolto. Nei nuovi componimenti, pubblicati in seguito nel volume Linea della vita12, proprio l'"esperienza vissuta" in senso lato viene collocata al centro della poesia che solo può giustificarla e trascenderne i limiti. Di questo mutato clima poetico risente anche la rappresentazione del mondo della natura.
Da un lato, gli eventi naturali conservano ancora intatto il loro fascino di segni gravidi di mistero, nei quali si manifesta l'invisibile, come nel componimento Nevicata13 dove l'inconsueto spettacolo della città innevata propizia, attraverso la legna che arde nella "patriarcale stufa", l'arrivo dei "geni del fuoco", "gli elfi briosi" assistenti del poeta nel magico rito della creazione poetica che svela l'invisibile nascosto nella realtà.
Dall'altro, però, anche gli elementi naturali sono rappresentati nella loro materialità secondo la nuova attenzione rivolta alle esperienze concrete sperimentate nel mondo naturale e umano. Sempre nello stesso volume, sono presenti, infatti, brevi componimenti nei quali il poeta percepisce gli odori intensi della terra "dopo mesi di sole", della pioggia "vasta che scende dai monti", dei cespugli "zuppati dallo scroscio" e delle radiche "che avidamente suggevano l'acqua / dal gonfio lievitato terreno"14 o si rallegra di fronte ai colori sfavillanti della frutta "...Via Monserrato, via del Pellegrino, / Campo di Fiori mi si aprì di gialli / meloni accesi e cocomeri rossi / nel grigio della sera senza lumi..."15 o scopre l'azione del vento sul "gran pispino / della fontana" che "sfrangia in ispruzzi" e scaglia "in arco lontano / sui ruderi / delle Terme..."16 Se nella raccolta Linea della vita la natura compare in diversi componimenti, a partire dalla raccolta successiva, Canto del destino17, si diradano i testi ispirati al mondo naturale, mentre si manifesta una "tragicità esistenziale" che determina nel poeta, consapevole del proprio tragico destino, il totale ripiegamento su se stesso, dopo il volontario isolamento dai suoi contemporanei che non sembrano più comprendere il vero valore della poesia indipendente dai gusti mutati. A volte, però, inaspettati spiragli di speranza risplendono nella buia notte della desolazione come frammenti di luce divina sepolti nella realtà interiore degli uomini o nascosti nel mondo della natura. Il componimento Gennaio18 rivela proprio il miracolo compiuto dal "limpido vento di tramontana" - elemento naturale ma anche spirituale - sulla vita quotidiana degli uomini rappresentata dalle "facciate delle case" sui cui "foschi intonachi" si specchia, portato dal vento, il "lampo dei boschi risorti". Il "grande respiro" s'estende anche alle montagne che si ridestano e persino al fondo dei "borri" dove il "vento di rovaio"19 solleva gli odori penetranti "dei funghi di castagni". Alla fine del componimento, l'atmosfera vira verso il fiabesco con i cavalli "che galoppano sopra vie di diamante" e l'arco delle grotte "gioiellate di ghiaccio" dove è svelato il carattere Kairologico del tempo: "è santo il mio gennaio".

Il volume La luce ricorda del 196720 - che riunisce tutta la produzione poetica di Vigolo da Conclave dei sogni fino alle Nuove poesie degli anni 1957-1966 - testimonia l'evoluzione stilistica e ideologica della poesia vigoliana, la quale si riflette anche nella diversa concezione della natura, dalla valenza onirica al significato di unica salvezza concessa al poeta provato dagli anni e dalle delusioni della vita. Ora, infatti, solo la natura sembra godere di una felicità imperscrutabile per gli uomini:

    Gli alberi sono felici
    nella luce, ne sono sicuro:
    respira il verde delle loro foglie
    verso il sole come in un estatico
    equilibrio dell'essere.
Se "misteriosa " è la loro pace, tuttavia gli uomini guardandoli possono percepire la sacralità del mondo, di cui gli alberi sono i luminosi cantori: " O alberi salmisti, con pianete / di luce, il vostro salmo / rimormoro devoto nel mio cuore."21

La consapevolezza della dolorosa incomprensione tra il poeta e la società si acuisce nelle poesie della raccolta Fantasmi di pietra22 dove Vigolo si rifugia nei ricordi, sentendosi ormai un sopravvissuto nella sua città che ha così amato da portarne impressi nel cuore per sempre i luoghi percorsi in tanti anni. Solamente nella natura, però, il poeta trova un po' di pace: "Uscire ai campi ancora mi consola / e solo andare in compagnia degli alberi / a toccare il cielo sulla collina".23 Nella sua solitaria passeggiata egli incontra una capra legata a cui si rivolge con parole di tenerezza, aiutandola a districare la zampa, e il mite animale lo ringrazia "con voce umana".
L'episodio richiama la celebre poesia di Saba La capra24 dove, però, il poeta triestino riconosce nel belato della bestiola la fraterna condivisione al suo dolore: " Ho parlato a una capra. / Era sola sul prato, era legata./ Sazia d'erba, bagnata / dalla pioggia, belava. // Quell'uguale belato era fraterno / al mio dolore. Ed io risposi..." Al contrario, Vigolo contrappone la capra all'uomo con il quale è così difficile comunicare e, mentre umanizza l'animale, paragona i palazzi della città, abitati dagli uomini, a brulicanti "alveari di vespe stizzite" con le quali non ci può essere nessuna comprensione, come sancisce il verso finale del componimento: "Io ho litigato con loro." Tuttavia egli ha prima riconosciuto, nei versi precedenti, di aver trovato una comune lingua "coi ciottoli, gli uccelli, i fili d'erba" quasi a ricompensa del suo graduale distaccarsi dalla società degli uomini. Così, verso la fine della sua lunga esistenza, il poeta che sognava la natura, raggiunge quello stato di beatitudine nel quale l'io s'immerge, senza più divisioni, nella realtà naturale.



1 Cfr. "Lirica", II (Natale 1913), pp.87-8.
2 Cfr. "La Voce", VII (30 marzo 1915), n.8, pp. 502-3.
3 La traduzione inedita è conservata nella Raccolta Giorgio Vigolo presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.
4 Roma, Società editrice di Novissima, 1935.
5 Giorgio Vigolo, Lirismi. Scritti poetici giovanili 1912-1921, a cura di Magda Vigilante, Roma, Edizioni della Cometa, 2003.
6 Ibidem, pp. 50-52.
7 G.V., Conclave dei sogni, op.cit., pp.53-4
8 Ibidem, p.69
9 Roma, Formiggini
10 Ibidem, pp.9-11
11 Dal termine greco Kairòs che indica il tempo connotato qualitativamente a differenza del termine Kronos che indica il tempo formale, sequenziale.
12 Milano, Mondadori, 1949
13 Ibidem, p.96
14 Ho sentito l'odore, op.cit., p.154
15 Via Monserrato, ibidem, p.144
16 Nel burrascoso meriggio, ibidem, pp.155-6
17 Venezia, Neri Pozza, 1959
18 Ibidem, p.85
19 Vento del nord
20 Milano, Mondadori
21 Gli alberi sono felici, ibidem, pp.360-1
22 Milano, Mondadori, 1977
23 La collina, ibidem, p.32
24 Umberto Saba, Il Canzoniere, Torino, Einaudi, 1978, p.68



GIORGIO VIGOLO
Breve antologia di prose e poesie


Da "Lirica" (1913)

Ecce ego adducam aquas

I due amanti si sono uccisi; nell'alto borgo, nere case a specchio del lago, il popolo come allucinato non fa che parlare di quella morte. E i suicidi giacciono tuttora abbracciati nel loro letto d'albergo.

Un profeta scarno sulla sabbia parla di un terribile castigo celeste per qualche loro inaudita lussuria. E questa notte infatti, come sempre quando si covano terremoti e simili flagelli divini, si sono uditi dalle oscure stalle i cavalli e le gravide giumente piangere e gridare con voci umane; poi, come il giorno è stato alto nei cieli, funeste nubi di quando in quando come stormi di locuste s'addensavano a lutto sul sole, e ne trasaliva il placido verde delle selve e delle acque velandosi d'improvviso pallore come volto di profetessa all'angoscioso presagio.

Annunziata così, la tempesta, piedignuda e discinta, è apparsa dietro le selvose montagne del sud, riversa sulla sua quadriga di nuvole. E allora si sono aperte le cataratte del cielo, il Niagara tuonò, sommerse; scomparsa è ogni linea di paese come sul litorale d'un infinito oceano; e s'odono tra i contrafforti montani e silvani cadere le folgori, urlare le forre come fauci di trafitti giganti, mentre i contorti pini e tutte le disperate conifere dalle rupi cui s'avvinghiano son rapite di schianto e girano come festuche nel vento.

Ma sulla bella dolomite rosea che rifiorisce tra i lampi fiammeggia una corazza di rame. Tartaro o Nibelungo è il rosso guerriero che la sua lancia d'oro agita in una corona di nembi? Svelati, gridami il tuo nome, Vercingetorige, Odino!

Or ecco, mentre soppressa dal suo stesso terrore la fauna odierna si rifugia nel convulso utero della madre, l'antidiluviana risuscita nel procelloso clima; e già sul lago io scorgo, emerso dai sotterranei fiumi, l'ittiosauro enorme erigersi fuori dal gorgo, l'inclito serpentoso capo dardeggiando a fiutare l'eguale che appaghi le sue ferocie...

- Ma Tacetevi - io grido - tacetevi. - E so che non varrà la mia voce. - Prima che si risommerga sotto la diluviana furia ogni silvestre chioma e sottomarina ridiventi, prima che vi si anneghino i popoli, le metropoli, le basiliche e le supreme torri, guardate quella finestra aperta sull'uragano, guardate quelle quattro candele che insanguinano il turbine, ma non si spengono ancora.




Da Il bivacco dei verdi, "La Voce" (1915)

4

Sudano i cieli notturni come la fronte del moribondo

un sipariuccio sgargiante da pochi soldi stona all'orizzonte come il belletto su un viso di prostituta in gramaglie

sul lago ebete cavallette dagli occhi di fosforo filano sull'acqua morta e le livree verde e oro dei ramarri mettono il terrore nei canneti

sotto la balza di selce nella ruga scura della forra ove s'è

allibita la nota stellare dei grilli c'è un gigante che parla in sogno addormitosi dalla parte del cuore

gli uomini sono da più anni scomparsi dalla terra

io solo appollaiato su questo pagliaio...




Da Poesie e prose ritrovate (1912-1921) in Lirismi (2003)

Amore per la sorgente

Ho seguito le tue melodie sotterranee, tutta la notte, o sorgiva! Quale segreta affinità mi orientò verso le tue case nascoste, o vena occulta della terra? Quale amore, per tramiti latenti, ti indusse a sposare la mia anima, perché tu potessi parlare?
Io non lo so ma ricordo che tutto quel giorno che precedette le ore del nostro incontro notturno, io vissi sotto il tuo segreto influsso, fino a non riconoscere più per miei, i pensieri, le azioni, le parole che dissi. In una liquida fluidità elementare si disciolse la mia vita, prima così massiccia e angolosa; in briosi gorghi di musica si cangiavano i nodi duri di selce, le fortezze arcigne del pensiero, cittadelle guardate da gelose sfingi.
Mi sentivo, fin da quella vigilia, vivificato e riscosso, frugato in angoli remoti del mio essere dove il sangue nemmeno s'era mai spinto a fluire. Ma, lì per lì, chi poteva comprendere un tal mutamento? Soltanto, mi sentivo grato a me stesso, della salute gioiosa che respiravo, senza voler saperne di più.
Così passò la giornata; ma all'appressarsi della notte, sebbene non fossi stanco, non vedevo il momento di addormentarmi. Mi attirava l'idea di andare a dormire, come se si fosse trattato d'andare invece a una festa misteriosa e ricca di strane avventure o a un appassionato convegno. Mi disponevo con cuore devoto al sonno quasi per prepararmi a ricevere una grazia singolare: con trasporto ed esaltazione ingenua di tutta la carne. Il mio sangue fluiva come una preghiera.
E appena il dolce demone del sonno mi ebbe soavemente baciato su tutta la persona e caddi svenuto fra le sue braccia di rose - d'un lampo traversai la già fissata traiettoria, dal cubo sigillato della mia camera a un gelido recesso d'elci entro una gola ventosa di montagne, in un paese selvaggio e lontano. Luogo disperso che fu più volte inconsapevole meta di miei trasognati vagabondaggi silvani. Filai lungo la linea prestabilita, scivolai come sfera di cristallo in tubi di velluto, pur dovendo traversare la densa siepe della città, i vortici di solitudine delle campagne oscure e bagnate, le lane grevi delle nuvole, il volume nero del mare.
Attratto ancor più profondamente, dopo la prima meta fra il crocchio dell'elci, mi internai nella retrostante roccia, tra spessori di strati, per capillari incrinature di ghiaccio che al mio passare si rigavano di un'acuta favilla azzurrina che avanzava velocemente. E penai a trafiggere immani letti di carbone, refrattari al fulmineo soffio del mio transito, fermi lucenti torrenti di nero che serravano ganghe d'oro e imponenti stature di re bruciati, stracarichi di gioielli. Intere città d'antrace, scolpite come statue nere, con l'aspetto esatto di vie e gesti di persone che avevano nell'attimo in cui furono inghiottite.
Ma superato questo tragitto oscuro, io giunsi al sollievo del convegno misterioso ove ero ardentemente atteso, al punto d'origine del desiderio che lì in fondo, di così lontano, mi aveva attirato. Al piccolo cespuglio di aghi di ghiaccio, sotto un'ascella incavata della profonda terra, ove il filtro da carboni ghiacciai e silici, gemeva la prima lagrima della sorgiva.
E da quel punto la mia vita s'innestò intimamente ed esattamente con quella della vena. Mai abbandono d'amore fra braccia di donna da anni desiderata, fu più languido e ardente della mia dedizione suprema alla femminea essenza della sorgiva. Io godevo di lei come essa di me= abbraccio, interfusione. Mi prendevo mi assorbivo la femminilità terrestre di quella creatura elementare, come essa rifulgeva a lampi della maschile foga umana che l'attraversava.
Le mie nozze oscure terrestri avvennero in quel momento. E da lì ho seguito i meandri, i labirinti, le infinite avventure sotterranee di quella che all'inizio esile vena, si fa più innanzi rigonfia arteria della terra.
Ho vissuto le curve rapide sotto gli abissi a picco di cui nessuna luce illumina il terrore; le fughe ringhianti dell'acqua ammulinata sotto gallerie folte di flore notturne, gonfie di strani frutti. Così basse che le foglie nere e grasse, come quelle dei cactus, toccano i fiocchi di spuma. Ho sentito dentro di lei il ribrezzo viscido degli angui. Ho saltato in vertigine il salto lussureggiante delle cascate sepolte, che talvolta arrivano a generare tra stilla e stilla un arcobaleno senza sole.
Quando uscimmo alla luce, in una grande campagna velata di nebbie, era l'alba. Bisbigli fiochi salutarono la nostra nascita. Ma il sole già saliva, lanciava sicuro allo zenit i suoi arditi uccelli d'oro. Si aprirono meraviglie di fiori turchini e stellati sulle rive e un coro d'usignoli si versò dentro le nostre onde.
Finché pacificati nella conca tranquilla, specchiammo tra i cipressi e le rose, il gregge soave degli agnelli e fummo bevuti da quelle gole miti, mentre dalle piccole chiese agresti le campane del mattino suonavano l'azzurro.




Da Conclave dei sogni (1935)

    Settembre

    Ho sognato settembre: una strada
    scendeva in giri cantabili
    fra colli di rosea pietra e di piante.
    Beatitudine mia.
    M'abbandonavo sull'aria materna.
    Dietro le spalle un oro
    sereno sentivo dal mare
    invisibile.

    Al sol cadente i cupi
    massi di musco avvolti
    parean tenere e pure
    materie d'un più lieve
    pianeta.
    E una luce sui prati erano acque
    fini, sorgenti come cielo: senza
    peso saliano il colle
    e sugli erbosi ammanti
    delle grotte facean fulgida l'ombra.


    Cocchio

    Buio mattino di novembre, spenta
    giornata in acque uguali:
    andare
    su carrozze trainate
    da neri galoppi
    in campagna.
    Sole non rompe mai
    dai nuvoli tetri. Qui stanno
    da ognuno obliati i boschi:
    padrone
    che mi fece di tante terre immense?
    Riverso sul bruno
    cocchio,
    regno questo paese
    deserto in piogge eterne.




Da Canto fermo (1931)

Senza tempo

Mi sono incantato alla svolta di una strada di campagna costeggiata dagli olmi: più giù un gruppo di case rustiche con un camino da cui balzava il fumo; e, dinnanzi all'uscio d'una di esse, un mulo bardato che scuoteva lentamente la coda. Niente di più di questo. Ma nella luce chiara e ferma del meriggio questa vista tanto semplice aveva una tranquillità così antica e immutabile che m'ha rapito come un'apparizione: E mi sembrava d'aver già contemplato un identico luogo in un immemoriale passato mentr'ero pur certo d'esser capitato lì, per la prima volta in vita mia.

Soffermandomi poi a considerare quel colore d'antica lontananza come lo vedevo riflettersi in me da quegli alberi e da quelle case, ho finito col darmene una chiara e umana ragione. In quella strada di campagna nulla v'era che non avesse potuto trovarvisi tale e quale anche tremila anni prima; nulla che in qualsiasi modo richiamasse alla mente il tempo in cui viviamo. Quella semplice scena spaziava in un'epoca distesa e lontana; la sua ora vasta, scandita in una pausa d'oro, comprendeva tanto l'oggi, che l'ieri, che il domani e, anziché rilevarne il contrasto li uguagliava in pace, come la curva del fiume ove l'acqua sempre diversa scorre con gli stessi disegni e con lo stesso colore.

Pensavo invece alle anguste visuali che una città moderna apre nel tempo: spiragli limitatissimi, attraverso i quali non ti è dato scorgere che il più ristretto presente sempre in rissa col più recente passato. Le vie cittadine col loro continuo cambiar d'aspetto, d'anno in anno, di mese in mese, servono quasi da meridiane alla Storia per segnarvi continuamente che ora è; impongono un'ora eguale per tutti ed è impossibile regalarvisi un tempo fantastico e personale. Il mutare dell'edilizia vi segna le ore; le botteghe e la moda, i minuti. Non solo: ma sul viso stesso della gente che ti passa d'accanto è dipinta - pur nel molteplice delle fisionomie - un'espressione concorde che non è quella di un anno fa, che non sarà più quella del prossimo inverno; tutti partecipano più o meno di quella certa atmosfera conforme e portano scritto in faccia: Viviamo nell'anno tale.

Invece, quando ci si inoltra per le strade di campagna, il tempo si comincia subito a dilatare, a divenire più tollerante e più comprensivo; sul viso dei butteri austeri non è scritto un anno o un secolo, è scritta un'era. Le donne grandi, coi capelli lucenti, i grossi pendagli d'oro alle orecchie e i coralli al collo, sporgono dai corsali damascati le mammelle brune di sole ad allattare i loro pargoli grassi con gesti antichissimi di idolesse e di isidi. La vita da secoli fluisce attraverso quelle membra pesantemente scolpite, come dentro statue perfette e inalterabili.

Già la fermezza e l'immutabilità di queste pietre umane immerse da migliaia di secoli nel fiume del sole senza esserne rose o mutate, ti dispone ad accogliere i grandi paesaggi di rocce che altra età non ricordano, altro tempo non misurano, se non le epoche di questo pianeta. La luce, il vento e le piogge passano attraverso questo paesaggio come in una clessidra lentissima, a limare i profili delle rupi e ad invecchiare una foresta: sono questi i suoi minuti e le sue ore, segnati sull'immenso quadrante della pianura dalla freccia d'oro del fiume che trasloca insensibilmente il suo alveo, ogni secolo un nulla, e dal mare che mangia le spiagge, come incanutiscono le tempie.

Nella natura il nostro tempo umano più non vige; e non è questa forse l'ultima ragione di quel grande sollievo e oblio che l'uomo fruisce fra gli alberi; in una solitaria campagna egli potrà sentirsi giovane, fanciullo, antichissimo o non ancor nato, a seconda che glielo dirà il cuore o che glielo proporranno i pensieri.




Da Linea della vita (1949)

    Nevicata

    Sorpresa del mattino
    sulla città nevicata;
    il cielo scuro e peso
    incuora alla giornata
    di lavoro nell'alto
    stanzone dei libri; e la vetrata
    spicca intera sui tetti bianchi il volo

    Bene di bosco odora
    la legna in patriarcale
    stufa; e i geni del fuoco,
    gli elfi briosi,
    i silfi già mi secondano
    d'un estro ilare in lieve
    ghirlanda. Attivo incanto
    sempre rinnovo e magico
    rito m'adempio,
    quando dall'invisibile
    scende il pensiero ai segni. Ecco s'intrecciano
    le auguste antiche lettere da estremo
    evo serbate; spiriti
    pronti al richiamo accorrono.


    XIII

    Ho sentito l'odore della terra
    dopo mesi di sole;
    ho sentito l'odore della pioggia
    vasta che scende dai monti
    col turbine d'agosto come un fumo
    e il giorno s'oscura;
    ho sentito l'odore della terra
    portato di lontano dal vento
    che era passato nei canneti
    e dentro i boschi arati dall'uragano;
    ho sentito l'odore dei cespugli
    zuppati dallo scroscio;
    ho sentito l'odore delle radiche
    che avidamente suggevano l'acqua
    dal gonfio lievitato terreno.


    II

    Trasognato e felice
    per viucole antiche
    vagavo sotto un cielo
    vicino alla pioggia. Leggero
    ai passi m'era il suolo
    e vaniva la via sotto il piede
    come un fiume di nuvole;

    tanto mite scendeva
    a specchio dei selciati
    la dolce ora di sera fra le brune
    case, e anche le persone ferme
    nel vano buio delle porte avevano
    non so quale perlata ombra sui volti.

    Via Monserrato, via del Pellegrino,
    Campo di Fiori mi si aprì di gialli
    meloni acceso e cocomeri rossi
    nel grigio della sera senza lumi,
    fin quando prese a cadere
    una pioggia tiepida, lieve,
    e le strade si fecero nere.


    XVI

    Nel burrascoso meriggio
    il vento scapiglia
    il gran pispino
    della fontana,
    lo sfrangia
    in ispruzzi, lo scaglia
    in arco lontano
    sui ruderi
    delle Terme.

                   Sorprendo
    nel sangue
    una gioia che sale:
    il ricordo
    di felici tempeste
    sommuove l'inerte.




Da La luce ricorda (1967)

    Gli alberi sono felici
    nella luce, ne sono sicuro:
    respira il verde delle loro foglie
    verso il sole come in un estatico
    equilibrio dell'essere.
    Misteriosa è la pace degli alberi
    sulla terra, il tendere dei rami
    al cielo, il penetrare delle radiche,
    il fremito delle foglie,
    l'aprirsi dei fiori,
    l'arcano dei loro colori
    di cui non sappiamo
    assolutamente nulla:

    ma attraverso gli occhi
    essi ci vanno nell'anima
    e sono le rivelazioni
    che riceviamo dalla religione
    perenne che si celebra nel tempio
    della natura.

    O alberi salmisti, con pianete
    di luce, il vostro salmo
    rimormoro devoto nel mio cuore.




Da Canto del destino (1959)

    Gennaio

    Dopo la notte di diluvio il limpido
    vento di tramontana
    fa miracoli sulle facciate
    delle case specchiandovi nei foschi
    intonachi il lampo dei boschi
    risorti nel turchino degli sfondi.

    Cantano le montagne attraversate
    dal gran respiro; e dal fondo dei borri
    il soffio di rovaio
    leva odori di funghi di castagno.
    I cavalli galoppano
    sopra vie di diamante
    e fumano dal manto sauro e baio;
    nell'arco delle grotte
    gioiellate di ghiaccio
    è santo il mio gennaio.




Da Fantasmi di pietra (1977)

    La Collina

    Uscire ai campi ancora mi consola
    e solo andare in compagnia degli alberi
    a toccare il cielo sulla collina.
    Una capra legata
    brucava in un pendio:
    io mi fermai a parlare con la capra,
    l'aiutai a districare la zampa:
    essa mi ringraziò con voce umana.
    Nulla è più bello al mondo
    che quando si comunica,
    e coi ciottoli, gli uccelli, i fili d'erba
    si trova una comune lingua.
    Ma è più facile parlare a una capra
    che comunicare con l'uomo.
    Perciò mi piace salire sulla collina
    e vedere la città di lontano
    coi suoi alveari di vespe stizzite.
    Io ho litigato con loro.




Giorgio Vigolo GIORGIO VIGOLO

Nato a Roma il 3 dicembre 1894, Giorgio Vigolo esordì con le sue prime composizioni poetiche sulle riviste "Lirica" di Roma, diretta dal poeta Arturo Onofri, e "La Voce" di Firenze diretta da Giuseppe De Robertis. Successivamente collaborò a "Il Mondo" di Giovanni Amendola (1924-1932), "La Fiera Letteraria", "Circoli", "Letteratura", "Il Giornale d'Italia" (1939-1941). Nel 1923, a Roma, pubblicò il volume di prose liriche La citta dell'anima cui negli anni fra le due guerre, seguirono i volumi Canto fermo (Roma, 1931) con prose e poesie, Il Silenzio creato (Roma, 1934) e la raccolta poetica Conclave dei sogni (Roma, 1935). Nel secondo dopoguerra si occupò di critica musicale per "Il Mondo" di Pannunzio e curò diverse rubriche musicali alla Radio da "Punto contro Punto" a "Musica e Poesia". Più tardi raccolse i suoi articoli musicali nel volume Mille e una sera all'opera e al concerto (Firenze, 1971).
Contemporaneamente alla sua attività di critico musicale - era stato nominato anche accademico di Santa Cecilia - Vigolo si dedicò all'edizione critica dei Sonetti del Belli, uscita a Milano nel 1952, alla quale in seguito si aggiunse il volume di critica Il Genio del Belli (Milano, 1963, in 2 voll.) e tradusse da Hoffmann Maestro Pulce (Roma, 1945) e da Hölderlin Poesie (Torino, 1958). Continuò pure la sua produzione poetica con i volumi: Linea della vita (Milano, 1949); Canto del destino (Venezia, 1959) - per il quale ricevette il premio Marzotto - La luce ricorda (Milano, 1967) - con cui vinse il premio Viareggio - e quella narrativa con le opere: Le notti romane (Milano, 1960) - per il quale ebbe il premio Bagutta - e Spettro solare (Milano, 1973). Negli ultimi anni della sua vita pubblicò i volumi poetici: I fantasmi di pietra (Milano, 1977), La fame degli occhi (Roma, 1982) e le opere narrative: La Virgilia (Milano, 1982), Il canocchiale metafisico (Roma, 1982) e La vita del beato Piroleo (Milano, 1983) uscita postuma. Morì a Roma il 9 gennaio 1983.


BIBLIOGRAFIA

Edizioni e ristampe

Poesia

  • Canto fermo, Roma, Formiggini, 1931; Milano, Greco e Greco, 2001
  • Conclave dei sogni, Roma, Edizioni di Novissima, 1935; Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2005
  • Linea della vita, Milano, Mondadori, 1949
  • Canto del destino, Venezia, Neri Pozza,1959
  • La luce ricorda, Milano, Mondadori, 1967
  • Poesie scelte a cura di M.Ariani, ibidem, 1976
  • I fantasmi di pietra, ibidem, 1977
  • La fame degli occhi, Roma, Edizioni Florida, 1982
  • Poesie religiose e altre inedite, a cura di Giuliana Rigobello Roma, Aracne, 2001
  • Lirismi. Scritti poetici giovanili 1912-1921, a cura di Magda Vigilante, Roma, Edizioni della Cometa, 2003
Narrativa
  • La città dell'anima, Roma, Edizioni delle cronache d'Italia, 1923; Milano, Archinto, 2003
  • Il silenzio creato, Roma, Quaderni di Novissima, 1934
  • Le notti romane, Milano, Bompiani,1960
  • Spettro solare, ibidem, 1973
  • Il canocchiale metafisico, Roma, Edizioni della Cometa, 1982
  • La Virgilia, Milano, Editoriale Nuova, 1982
  • La vita del beato Pirolèo (postumo) ibidem, 1983.
Traduzioni
  • E.T.A. Hoffmann, Maestro Pulce, Roma, Perrella,1945
  • F. Hölderlin, Poesie, Torino, Einaudi, 1958; Milano, Mondadori, 1971
Edizioni Belli
  • G. G. Belli, Sonetti (scelti e annotati) Roma, Formaggini, 1931
  • Id., I sonetti, Milano, Mondadori, 1952
  • Id., Er giorno der giudizio, Milano, Mondadori, 1952
Saggistica
  • Il genio del Belli, Milano, Il Saggiatore, 1963, voll. 2
Critica Musicale
  • Mille e una sera all'opera e ai concerti, Firenze, Sansoni, 1971


Bibliografia essenziale su Giorgio Vigolo

  • M.Ariani, Giorgio Vigolo, Firenze, La nuova Italia, 1976
  • A.Frattini, Introduzione a Giorgio Vigolo, Milano, Marzorati, 1984 (contiene una bibliografia su Vigolo dal 1924 al 1983)
  • N. Merola, Sua sorella la poesia. Vigolo e Belli, in Letture belliane. I sonetti del 1834, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 137-163
  • C. Varese, Giorgio Vigolo e il fantastico, in"Otto/Novecento", 1985, nn. 3-4, pp.193-7
  • G.Gibellini, Giorgio Vigolo (un posto nella letteratura) in "Alfabeta", 1986, n. 81, pp.3-4
  • L.Lattarulo, Vigolo tra conoscenza e saggezza, in "Rassegna della letteratura italiana", 1986, n.3, pp.561-564
  • A.Asor Rosa, Tra romanticismo e "barocco nero": il "caso Giorgio Vigolo" in Letteratura Italiana. Storia e geografia. L'età contemporanea., Torino, Einaudi, 1989, vol.III, pp. 1001-1002
  • G.Fiori, Varianti d'autore a stampa nella tradizione della poesia di Giorgio Vigolo in "Otto/Novecento", 1992, nn.3-4, pp.79-106
  • G.Zagra, Il fondo Vigolo e il manoscritto della Virgilia, in I fondi, le procedure, le storie: raccolta di studi della Biblioteca, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II, 1993, pp.93-110;
  • Conclave dei sogni. Giornata di studi per il centenario della nascita di G.Vigolo, 18 novembre 1994, ibidem, 1995;
  • S.Ramat, La poesia italiana 1900-1945 per titoli esemplari. Ventisettesima parte: Conclave dei sogni di Giorgio Vigolo in "Poesia", 1993 , n.66, pp.56-66
  • M.Vigilante, Giorgio Vigolo (1894-1983) in "Studi novecenteschi" XXIV, n. 54, dicembre 1997
  • G.Vigolo, Un poeta fa appunti al suo tempo; C.Spila, Lo Zibaldone in " Il caffè illustrato", marzo-aprile 2003, pp.60-1
  • P.Frandini, Alberto Moravia a Giorgio Vigolo in "Nuovi Argomenti", gennaio-marzo 2003, pp.81-105
  • M.Vigilante, Qui è un sogno. Elsa Morante a Giorgio Vigolo da Anacapri in Le stanze di Elsa. Dentro la scrittura di Elsa Morante catalogo della mostra presso la Biblioteca Nazionale di Roma, 27 aprile -3 giugno 2006, a cura di Giuliana Zagra e Simonetta Buttò, Roma, Colombo, 2006

magdavigi@alice.it