CITTÀ DI PIETRA
Fu una città, abitata non sappiamo
da quali razze, che sorgeva dove
cadaveri di pietra giacciono oggi
su queste rive, insepolti dal tempo
in cui fu fatto scempio di quel popolo;
scogli, del dramma che si consumò
prima che queste lapidi innalzaste,
non ci restano che rovine: salme
di navi o di edifici, architetture
affioranti a pelo dell’acqua, cupole
abbattute, loggiati e scale e arcate
crollati a seguito di sismi o frane;
e una voce si coglie a volte, un coro
a lutto: è l’onda che di tutti voi
sa la storia e alla baia la confida,
l’onda che detta i suoi epitaffi e tenta
di consolarvi, con la sua carezza
e con la sua monotona elegia
la cui fievole eco è testimone
di eventi immani ma dimenticati.
POEMA DI ROCCE
A riva, sparse tra i ciottoli, insolite
lastre fitte di segni cuneiformi,
tavole piatte vergate di linee
scritte in caldeo, che invece sono tracce
di filamenti fossili di alghe;
pietre parlanti, documenti apocrifi
della genesi, pagine strappate
di libri colossali che raccontano
di diluvi e di scontri fra comete
e della riva insultata dall’onda:
bocche di tufo, un mormorio alle volte
da voi sembra che filtri e che rammemori
eventi enormi, lingua del disastro
che il suo poema violento ha dettato
sulla pagina d’ogni costa o isola.
Scogli, memoria di costellazioni:
voce del tempo, che attraverso i vostri
alfabeti dispersi, detta all’onda
una storia feroce ma magnifica,
le gesta della sua lunghissima opera.
PAROLE NELLA PIETRA
Certi scogli riportano scolpite
linee sopra la loro superficie
che somigliano a lettere, tracciate
da mani non umane, mani anonime
di vento e sale, che alla pietra affidano
la leggenda di come ebbero origine
dalla notte gli oceani e i continenti,
ma in una lingua che non è la nostra –
scogli, memoria di costellazioni,
attraverso le vostre labbra un dio
ci invia i suoi oscuri cenni, ci confida
chi è e chi siamo, inascoltato oracolo.
PRIMO SGUARDO SUL MARE
Sono simboli certi scogli: in essi
come in ogni frammento del paesaggio,
arbusti ed onde, lo sguardo rinviene
analogie e somiglianze, coglie
relazioni e le intesse in trame armoniche:
da un lido a quello opposto, dalla punta
di un promontorio al picco di un crinale,
la luce l’erba la pietra si scambiano
sottili comunicazioni in codice,
parole che attraverso il cielo aleggiano.
Scogli, resuscita in voi l’illusione
dell’uomo che diede nomi di Dei
al fuoco e al tuono, alle nuvole e ai venti,
quando il suo sguardo stupefatto e muto
rivolse al mare per la prima volta
o al firmamento, quando con un misto
di incanto e turbamento si smarrì
nel contare le stelle, e sentì schiudersi
il seme di una consapevolezza
nella sua mente, l’oscura intuizione
che ogni cosa visibile, da un ciottolo
alle Nubi di Magellano, fosse
parte di un piano più ampio, di un’unica
volontà misteriosa, avesse un senso
sebbene non comprensibile a noi.
ORCHIDEA DI PIETRA
(Quando era ogni isola una donna)
Era una donna ma si mutò in isola;
la punì un dio di cui ferì l’orgoglio
respingendone l’amoroso dono;
era una Nereide, e oggi il suo corpo
steso sull’acqua ancora in parte evoca
sembianze vagamente femminili
e ricorda una giovane che dorme
su di un letto di zagare e di sabbia,
rifugiata in un nascondiglio fitto
di carrubi e di mirti: una dea barbara
mai violata dall’occhio di alcun uomo,
dalle grazie selvatiche indifese
raccolte in uno scrigno di arenaria
e di rovi, completamente nuda
come lo sono luce rocce ed acque;
ha per capelli un odoroso manto
di felci e di ginestre, e di alghe soffici
è il velo delicato del suo pube,
nera come il basalto la sua pelle;
e mentre ad occhi chiusi si rigira
lenta nel sonno, la schiuma accarezza
le insenature e i golfi che richiamano
lungo la costa il profilo sinuoso
dei suoi turgidi fianchi, dei suoi seni
procaci, che scolpiscono sul mare
un’orchidea, dal tempo e dalle mani
di vento ed onde estratta e modellata:
bacio delle ere, ruvido ma tenero,
che le bocche del cielo e della pietra
sull’orizzonte in perpetuo si scambiano.
ARCHETIPI
Corpi che furono vivi, gli scogli:
titani che un castigo fulminò
a seguito di un sacrilegio, in statue
di calcare, in immobili erme mute
ma dalle membra ancora palpitanti
sotto il velo della materia bruta:
nella pietra contorta, un’eco debole
racconta del martirio di quegli esseri,
del supplizio che sembra perpetrarsi
nelle loro fisionomie aberranti,
negli spasmi di un’agonia lunghissima
che scontano, senza poter morire.
Macigni condannati – è in voi che tutto
il dolore del mondo si è rappreso,
nei vostri volti di tufo si è fatto
universale archetipo e ci parla.
PAREIDOLIA DELLE ROCCE
Nel sonno delle rocce covano incubi:
sui fogli spalancati dagli scogli
riconosco le impronte che le dita
dello scriba delle onde hanno lasciato
dettando un qualche mai tradotto oracolo;
leggo visioni, fantasmagorie
che soltanto un dio folle, dalla mente
invasata, potrebbe concepire:
le rughe sulla fronte dei macigni
evocano dei volti quasi umani
ma aberranti, ritratti di creature
sofferenti, dai corpi che si piegano
in preda ad una febbre o a degli spasmi
in pose innaturali, deformate
dalla violenza delle acque a immagine
di lebbrosi, di mutilati: erme
dai tratti deturpati dall’oltraggio
degli elementi, emblemi dalle maschere
ebeti o allucinate, dagli sguardi
dementi oppure osceni, di assassini
o di veggenti, di sconvolte Erinni
a schiantarsi sul mare, di Gorgoni
dalle attonite bocche spalancate
in un urlo che fa di pietra il sangue
di chi le fissi; e sembra che la schiuma
abbattendosi sulla riva liberi
tutti i miraggi in essa imprigionati,
tutti i titani sepolti alle origini
dal demiurgo del tuono e dei diluvi
nella materia, nel suo oscuro Tartaro.
MONUMENTI MARINI
Un’impressione di maestà e rovina
la falesia dal proprio volto evoca:
certi scogli, sfondati o accatastati
dallo scempio protratto dalle onde,
elevano superbe alberature
di navigli riemersi da un naufragio;
rovine di edifici, architetture
crollate ma magnifiche, svettanti
tra le nuvole e il mare: dalle cupole
di ossidiana, dai portici in feldspato,
dagli architravi che sfoggiano intarsi
preziosi di diorite, dai portali
lucidati dal bacio della schiuma;
megaliti temprati dal contatto
tra l’aria fredda e il sangue incandescente
dei fondali: erme dalla visionaria
plasticità, battute sull’incudine
dei venti, icone cromate dal sale;
informi concrezioni verticali:
forse obelischi, o scheletri di duomi
dati alle fiamme, o bastioni di guardia
all’orizzonte, o sarcofagi in porfido
oppure altari, che furono popoli
estinti a issare un tempo, e in abbandono
oggi, che nidi ai cormorani offrono –
canto scolpito nella pietra, rocce,
monumenti che un inno muto perpetrano
al dio del tempo e della solitudine,
alla forza che muove gli elementi.
RISVEGLIO
Il loro è un esercito umiliato
e ridotto alla resa – ma gli scogli
attendono, in silenzio, di affrancarsi
dal regime che ne obbliga le membra
all’immobilità, di essere sciolti
dalla condanna a una pace forzata
che grava sulle batterie schierate
sul fronte della spiaggia, sui reparti
corazzati che ad arco si dispiegano
da un capo all’altro della baia: a breve
in un codice convenuto udranno
un segnale, riceveranno l’ordine
di attacco, e stanno all’erta: già di guardia
montano i loro avamposti, e le sagome
delle loro vedette spiano il largo
e si erigono, in pose concitate,
sbraccianti, gesticolanti, a inveire
contro il mare, a rivolgergli un’accusa
o una minaccia, impazienti di tendergli
un agguato, di insorgere all’unisono
contro la sua tirannide e assaltarne
i confini – popolazione barbara
domata ma che nel suo sonno cova
arcaiche rabbie, trama una congiura
che non confessa né all’uomo né al vento.
FINE ULTIMO
Dalla laguna, sdraiato sull’acqua,
scruto il vulcano, il suo volto superbo
e crucciato, come di un re sul punto
di mandare al patibolo un suo suddito.
Verso la sommità il verde dirada
in ciuffi sempre più sbiaditi e magri,
pallidi nella luce straripante:
vegetazione oltretombale, piante
che crescono nell’aldilà, sterpaglia
color cenere, alberi di vetro
dai corpi che la calura accartoccia,
che l’aria troppo satura di sale
raggrinzisce, prosciuga, fa rachitici;
lo sguardo mendica le altezze e scala
il dorso immane del mostro dormiente,
fino alla cresta, brulla come d’ossa,
solcata dall’artiglio dei calanchi,
scanalature che spaccano i massi
dove l’erba non osa inerpicarsi
e dove le nuvole di passaggio
compongono geroglifici d’ombre.
Imparare a guardare, a riconoscere
terribile o magnifico il prodigio
in ogni cosa: questo solo il fine
che al vivere e allo scrivere so dare.
INCONTRO CON GLI SCOGLI
Sembra che da un tempo non misurabile
se ne stiano in esilio questi scogli
in una rada appartata, che gli uomini
ancora non conoscono e che io
solo ho scoperto: li raggiungo a nuoto,
impaziente di ritrovarmi anche oggi
faccia a faccia con loro, di incontrarli;
ed ogni volta è come se mi attendano
da prima ancora che fossero nati
i continenti e i mari, e che gli eserciti
siderali si fossero spartiti
i quadranti del cielo: già loro erano
qui radunati, come rispondendo
a un certo invito, ad un appuntamento
non concordato; hanno una confessione
forse da farmi, hanno un verdetto o un monito
da consegnarmi, una rivelazione
ma che non sono in grado di tradurre
nella mia lingua, e che non riesco a estrarre
dalla perplessità turbata e attonita
dei loro sguardi, dall’interrogante
silenzio con cui sembrano fissarmi –
eppure c’è quasi un’aspra dolcezza
nella compagnia muta degli scogli,
una aristocratica beatitudine,
una pace severa, anche se a pochi
ne fanno dono, tanto che fra loro
ho il privilegio di sentirmi accolto
in mezzo a dei fratelli, in una cerchia
di presenze benevole, e partecipe,
per qualche ora, di un sapere sacro,
di un arcano di cui i puri elementi,
il vento e l’acqua, la luce e la pietra,
gli esclusivi depositari sono.
(Isola di Vulcano, luglio 2024)
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