FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 51
gennaio/aprile 2019

Ostacoli

 

IL MONDO CANTATO DI HUMBERTO AK’ABAL

di Martha L. Canfield



Dalle più antiche culture, o dai più antichi poemi epici o religiosi, dove la poesia non può essere che magico-liturgica, impariamo che con la parola si crea e si distrugge, con la parola si fissa il destino, perché il destino (fatum) è inscindibilmente legato alla cosa detta (in latino fari = dire). Ecco perché Cassandra non è semplicemente colei che annuncia, ma anche colei che produce il male enunciato.{1} C’è una fatalità della maledizione e dell’incantesimo che proviene dalla parola, sempre di origine divina, o quanto meno semidivina. Ed esiste un’ebbrezza del verbo, più evidente nella creazione poetica, a causa della quale i poeti si dicono strumenti degli dèi (o delle Muse). Ugualmente esiste una disperazione implicita nell’anonimato, nell’essere senza nome, o nessuno, condizione sentita come sintomo della crescente massificazione o, peggio ancora, come forma violenta di emarginazione sociale. Dare un nome significa creare, chiamare alla vita, mentre non avere nome significa non esistere.

Humberto Ak’abal, nato nel 1952 nel seno di un’illustre famiglia della comunità maya k’iche’ di Momostenango, in Guatemala, e tragicamente scomparso il 28 gennaio scorso, era nipote di un sacerdote maya dal quale assicurava di avere imparato tutto. Scriveva nella sua lingua e si autotraduceva in spagnolo. La prima importante raccolta della sua poesia, uscita nel 1996, l’ha voluta intitolare Ajkem tzij, cioè Tessitore di parole, volendo riunire così due gesti fondamentali per lui: quello dell’intrecciare le parole, dato che intrecciatore di parole è la traduzione esatta della parola k’iche’ con cui si nomina il poeta; e il gesto del tessere, in senso letterale, mestiere delle sue nonne, che lavoravano con lana di pecora. Rispettando poi questo concetto, il libro si chiamò Tejedor de palabras in spagnolo{2} e Tessitore di parole nella traduzione italiana.{3}

Il titolo non era soltanto un gioco di parole, seppure di chiaro valore stilistico ed emotivo per l’autore, ma indicava chiaramente che quelle parole non si limitavano a nominare la materia, ma erano la materia; inoltre, componendo quella materia in un certo ordine, vale a dire tessendo le parole, si dava vita a un mondo. Gli oggetti inerti allora acquistano movimento, sentimenti, anima:

      La luna
      busca algún agujero
      en las casas de adobes,
      entra
      y se sienta en el suelo.
      En el suelo, p. 36{4}

        La luna
        cerca un pertugio
        nelle case di argilla,
        entra
        e si siede per terra.
        A terra, p. 37
E le voci della memoria si rinnovano nelle voci della natura, perché ogni cosa ha un’anima, ogni suono è una voce:
      En las voces
      de los árboles viejos
      reconozco las de mis abuelos.

      Veladores de siglos.
      Su sueño está entre las raíces.
      En la voz, p. 40

        Nelle voci
        degli alberi vecchi
        riconosco quelle dei miei avi.

        Vigili da secoli.
        Il loro sogno è nelle radici.
        Nella voce, p. 41
La poesia di Ak’abal, come in genere la poesia indigena americana, ignorata e rimossa per secoli dalla cultura ufficiale, da una parte ci riporta nella lingua parlata e dall’altra ci introduce nell’ambito della sacralità; perché, in effetti, non può che essere sacro quello spazio in cui si chiama alla vita. Il linguaggio parlato, d’altra parte, è più vicino alla poesia che alla prosa, è meno riflessivo e più naturale: per la stessa ragione – riflette Octavio Paz – fare il poeta senza saperlo risulta più facile che fare il prosista.{5} E Ak’abal, che nei suoi versi si definisce “un indio povero”, esige l’uso della parola come un diritto inalienabile e inseparabile dal diritto all’esistenza e racconta con dolore che per realizzare il nobile mestiere del poeta si deve rassegnare ad assumerlo come “lavoro extra”, dato che non dispone del proprio tempo come vorrebbe, dovendo “lavorare in altre cose per sopravvivere”. Così, degradata dalla cultura ufficiale, l’antica società che venerava il saggio e il poeta in una stessa identità, adesso deve vedere i propri poeti condannati a sopravvivere a mala pena nelle periferie, lottando per recuperare la parola, sudando per creare poesia. E malgrado le difficoltà, loro sono poeti anche quando raccontano minime esperienze, usando il linguaggio immediato della conversazione, proprio come Ak’abal.

Lo stesso Octavio Paz ha studiato un fenomeno che si trova nelle più antiche cerimonie orientali e mediterranee e che più tardi ricompare in altri movimenti religiosi vicini al cristianesimo iniziale. Il fenomeno, conosciuto scientificamente come glossolalia, consiste nel ricorrere a parole e sillabe senza senso. Nell’America indigena ci sono gruppi che l’adottano e uno di questi gruppi si trova precisamente in una popolazione di lingua maya nella penisola dello Yucatán.{6} Anche nella poesia di lingua spagnola la glossolalia è un fenomeno ricorrente: nella letteratura del Novecento è esemplare l’esperienza estrema di Altazor (1931) di Vicente Huidobro. Questo modo di abbandonarsi alla frenesia di sillabe e di voci ritmiche senza un chiaro significato dimostra – secondo Octavio Paz – la profonda affinità esistente tra l’esperienza poetica e l’esperienza religiosa, ancora non perfettamente spiegata.{7}

Quando ascoltiamo Ak’abal che recita le sue poesie (e fortunatamente rimangono tante registrazioni con la sua accattivante voce), dove i nomi degli uccelli, le voci degli animali e le onomatopee non hanno traduzione – come quella bellissima delle campane, “tangalana, tangalana, tangalana” –, sentiamo che ci trascina in un contatto diretto con una percezione della realtà diversa da quella che abbiamo normalmente e proviamo una sensazione di meraviglia e di adesione immediata. Perché ciò che Ak’abal ci restituisce – lui come altri poeti indigeni americani – è la comunione tra parola pronunciata e realtà creata; così, per un momento, lui riesce a chiudere quella terribile ferita dell’uomo contemporaneo, causata dalla scissione tra uomo e mondo, tra mondo e dio. Naturalmente il sollievo è più forte quando ascoltiamo la voce seducente del poeta. Ma l’effetto si produce anche mediante la lettura silenziosa dei suoi versi, attraverso l’appropriazione visiva di parole che rimandano a suoni che rimandano a cose, nella cui corrente vitale sentiamo di essere felicemente sommersi. In altre parole, ciò che la poesia di Ak’abal restituisce è l’esperienza senza tempo della comunione. Altissima esperienza, se possiamo credere, ancora con Octavio Paz, che la poesia è la via di accesso al tempo puro, l’immersione nelle acque primigenie dell’esistenza.

Per il lettore europeo, e in genere per chi vive nella società moderna telematica e virtuale, nella quale l’antica comunione è stata spezzata e il rapporto con gli antichi dèi è stato rimosso o cancellato, questa poesia arriva come un’ondata di aria pura, per restituirci il senso del tangibile e la forza emotiva del contatto e della comunione. Dice, per esempio, Ak’abal:

      Si te encaramás a un viejo ciprés
      y trepás por sus ramas,
      verás que la tierra
      no está lejos del cielo.

      En Momostenango.
      podrás tocarlo.
      El cielo, p. 26

        Se ti arrampichi su un vecchio cipresso
        e t’inerpichi tra i suoi rami,
        vedrai che la terra
        non è lontana dal cielo.

        A Momostenango
        potrai toccarlo.
        Il cielo, p. 27
E ancora:
      Los colores en nuestros tejidos
      no destiñen:

      sólo envejecen.
      Colores, p. 28

        I colori dei nostri tessuti
        non stingono:

        invecchiano soltanto.
        Colori, p. 29
Oppure:
      No es que las piedras sean mudas:
      sólo guardan silenzio.
      Piedras, p. 28

        Non è che le pietre siano mute:
        semplicemente stanno zitte.
        Pietre, p. 29
Tuttavia, da questa poesia spunta anche una lancia: una voce che penetra nel nostro cuore, portandoci il dolore di un intero popolo umiliato, assediato, aggredito, decimato già fin dai primi anni della Conquista. Questa voce risveglia in noi un senso di colpa, per appartenere al mondo che portò da loro sangue e distruzione. Ma visto che nello stesso tempo sentiamo che la sua voce è capace di sollevarsi ancora, essa ci riconcilia ulteriormente con questa capacità dell’uomo – ovunque sia – di rinascere, di farsi comunque ascoltare, di comunicare quella incantata armonia con la natura che la nostra civiltà sta cercando oggigiorno insensibilmente di annientare.



La voce di Humberto non ci mancherà: essa è destinata a durare nel tempo e a illuminare le generazioni successive. Ci mancherà la sua persona, la sua amicizia, il suo umorismo. Così, per ricordare questo aspetto più sorridente della sua personalità, proponiamo ora un racconto che scrisse nel 2004 e che lesse a Firenze nel Teatro Comunale di Antella, poco dopo aver ricevuto il Premio Internazionale Pier Paolo Pasolini. Il racconto rimase inedito, anche nella traduzione che allora venne letta dalla attrice Marcellina Ruocco.



{1}Anita Seppilli, Poesia e magia, Einaudi, Torino, 1982, p. 70.

{2}Humberto Ak’abal, AJKEM TZIJ, Tejedor de palabras, a cura di Carlos Montemayor (scelta dei testi e prefazione), Fundación Carlos F. Novella, Guatemala, 1996.

{3}Humberto Ak’abal, Tessitore di parole, a cura di Emanuela Jossa, Le Lettere, Firenze, 1998.

{4}En el suelo, ivi, p. 36; le poesie citate, tratte da questa edizione, saranno indicate con titolo e numero di pagina.

{5}Octavio Paz, El arco y la lira, Fondo de Cultura Económica, México, 1986, p. 21.

{6}Felicitas Goodman, Speaking in Tongues. A Cross-cultural Study of Glossolalia, University of Chicago, 1972.

{7}Octavio Paz, Lectura y contemplación, in Sombras de obras, Seix Barral, Barcelona, 1983, p. 18.


I MIEI CAPELLI
di Umberto Ak’abal


I miei nonni da parte di madre avevano i capelli lunghi, vagamente ricordo il bisnonno: i suoi capelli bianchi li arrotolava attorno alla nuca e metteva il suo cappello sopra quella crocchia canuta.

Mia madre voleva che io seguissi la tradizione dei nonni. C’erano diverse ragioni per portare i capelli lunghi: proteggevano l’albero della vita, impedivano che uno tartagliasse e i fantasmi non venivano a dare noia. Mia madre mi faceva le trecce, due trecce perché i miei capelli erano folti, questo durò finché ebbi sette anni. A quei tempi i maestri andavano casa per casa a reclutare bambini in età scolastica, e coloro che si rifiutavano di portare i propri figli a scuola venivano mandati in galera. Malgrado questa minaccia molti genitori nascondevano i figli in pozzi secchi, in grandi giare o sulle chiome degli alberi. La scuola non era vista bene dagli anziani, temevano che fosse un luogo dove “avrebbero aperto gli occhi e le orecchie ai bambini che a poco a poco avrebbero perso i valori della famiglia...” (Secondo come sono andate dopo le cose mi domando se non avevano qualcosa di profetico questi timori dei nonni). Alla fine i maestri spuntarono dietro la casa, mi individuarono e non ebbi modo di scappare; io avevo molta paura ma mio padre si fece coraggio per andarci, entrambi i miei genitori mi portarono a fare l’iscrizione e lì ebbi il mio primo problema, perché la preside disse che non mi avrebbero iscritto alla scuola dei maschi bensì a quella delle bambine, ma i miei insistevano sul fatto che io ero un maschietto, e la direzione della scuola sentenziò che non potevano iscrivere in quella sezione qualcuno che non sembrava maschio, quindi per la prima volta mi tagliarono i capelli; mia madre pianse molto e mise le mie trecce sotto il suo cuscino.

Passarono gli anni della scuola elementare. Non potevo continuare a studiare, sicché dimenticai il barbiere e i miei capelli ricominciarono a crescere. E quando avevo circa diciassette anni li avevo abbastanza lunghi, tanto che mia madre era contenta e diceva che, secondo lei, assomigliavo moltissimo al nonno.

L’esercito allora reclutava i ragazzi della mia età per portarli in caserma, in un’operazione che con grande sarcasmo chiamavano “servizio militare volontario” (quello era in realtà una caccia criminale, non un reclutamento, i ragazzi venivano catturati durante i giorni di mercato, trascinati per le orecchie, per i capelli, strappati dalle case durante le ore della notte e portati via quasi nudi, trascinati sui camion, sorpresi lungo le strade e acchiappati sui monti). E chiunque avesse avuto i capelli lunghi dimostrava che non aveva fatto il servizio militare. Benché io fui risparmiato per via di un certo impedimento fisico, i militari mi costrinsero comunque a tagliarmi i capelli perché altrimenti, secondo loro, ero un “effeminato”, e se non me li tagliavo per conto mio l’avrebbero fatto loro, dato che “i maschi devono sembrare maschi”. Molto contro il mio parere mi sono visto costretto a ritornare dal barbiere.

Sono passati sei, otto anni, e finalmente ho potuto farmeli crescere di nuovo. In quegli anni la guerra interna nel paese si era intensificata e io ho dovuto abbandonare il mio villaggio e andare in città in cerca di lavoro, qualsiasi tipo di lavoro: domestico, spazzino, facchino, quello che trovavo perché io non ero qualificato. E così mi è nato un altro problema: non mi ingaggiavano perché ero un “capellone”, così sembravo un ubriacone, un vagabondo, avevo la faccia da stupido. Non mi è rimasta altra scelta che tagliarmi i capelli.

Dopo dieci anni lavorando in città, ho potuto smettere di fare l’operaio, sono tornato nel mio villaggio e mi sono fatto ricrescere i capelli. Allora è stato pubblicato il mio primo libro di poesie e per la prima volta si è vista la mia fotografia sui giornali. E anche se può sembrare uno scherzo, alcuni “critici” della letteratura guatemalteca si sono messi in allarme, dicendo che io mi ero fatto crescere i capelli “per ammiccare agli europei”, “per vendermi come apache, come sioux...”. Si possono tuttora consultare questi insoliti articoli giornalistici.

Questo pomeriggio piovoso di luglio vedo il pettine con cui mi sono appena pettinato, getto uno sguardo indietro, lungo mezzo secolo di vita, e mi rendo conto che i miei capelli sono stati oggetto di critica e di persecuzione da parte di maestri, datori di lavoro, militari e critici di letteratura in Guatemala. E oggi, quando finalmente posso godermeli e tenerli come mi pare e piace, non soltanto non mi crescono più ma addirittura incominciano a cadere...


Traduzione dallo spagnolo di Martha L. Canfield


canfieldmartha@gmail.com