FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 45
gennaio/marzo 2017

Indizi

 

INDIZI PER UNA GUARIGIONE

di Lucia Cupertino



Queste poesie appartengono a una silloge scritta nel giro di poche lune nell’estate del 2012, Los cantos del río Alegría, e ora tradotte in italiano per questo numero di Fili d’aquilone.

Presso alcune culture native, la malattia è spesso percepita come qualcosa di minuscolo che si insinua nel corpo e bisogna scacciare o come un male sociale che si impossessa della dimensione psico-corporale. Quel momento reclama parole per scavare nei meandri dell’umano ferito, per estirparne la radice, erbe medicinali e canti per sanare come fanno gli sciamani, quei pochi rimasti per davvero oggi. Dall’avvicinamento a quelle culture tramite studi ed esperienze, dal fiore spuntato nell’io in crepe di quegli anni nasce un viaggio epico e antropopoietico attraverso una serie di alter ego e attraverso un’altra lingua, lo spagnolo, con cui ho concepito questa raccolta.



Flor caracol de la montaña Tol, pittura murale di Javier Espinal (Honduras)


*

Sobre un blanco caballo
una mujer esparce sus trenzas,
el viento se abre sendas
entre sus hilos de seda.
El vuelo de un halcón
sabe a papalote pero no,
su trayectoria abre trazas
en la piel de su brazo:
la roza antes de subir
de nuevo a los cielos
introduciéndole algo,
algo muy diminuto,
tal vez una piedrecilla
o el resto de un guijarro
trabajado por el mar.

Ni se percata la mujer:
humedece su dedo de saliva,
para el arroyuelo de sangre,
da un golpe de espuelas
y – consultado el sol –
apunta hacia el oriente,
hacia los límites conocidos.

De golpe su caballo
se vuelve transparente,
la mujer diamantina.
De eso ni se percata.


*

A dorso di un cavallo bianco
una donna sparge le sue trecce,
il vento s’apre sentieri
tra i suoi fili di seta.
Il volo di un falchetto
sa d’aquilone eppure no,
la sua traiettoria dischiude tracce
sulla pelle del suo braccio:
la sfiora prima di risalire
lassù nei cieli
e le introduce qualcosa,
qualcosa di minuscolo,
forse una pietruzzola
o il resto di un ciottolo
lavorato dal mare.

Non se n’accorge la donna:
inumidisce il dito di saliva
blocca il rigagnolo di sangue,
dà un colpo di sperone
e – consultato il sole –
punta verso l’oriente,
verso i confini conosciuti.

Di colpo il suo cavallo
diventa trasparente,
la donna diamantina.
Neppure di ciò se n’accorge.


*

No llegaste donde querías.

Tu mapa se lo comió una cabra
pero no, no fue por eso,
ese dibujo en tu cabeza lo tenías
y lo habías depositado en papel
por amor a la caligrafía, a los colores.

Tu rocín precipitó en un barranco
mientras estabas dormida
y tuviste que contar con tus pies,
pero no fue ni esa la razón,
estaba ya muy viejo el pobrecito
y había coleccionado más achaques
que el cielo sus puntos y comas,
morir fue tu misma liberación.

No llegaste donde querías
muchachita de pelo brillante,
alcanzaste una ciénaga
y alquilaste una canoa
a cambio de tus aretes
(los aretes de oro que tu abuela
te había regalado poco antes
de que su cama se volviera fría).

Al principio fue complicado
acostumbrarte a esa aldea,
a las miradas de quienes
no hablándote te decían extranjera.
Luego te casaste, cuidaste el hogar,
tuviste hijos y creo fuiste feliz
a tu manera, con tu gran sonrisa.

Quién sabe si fue suicidio no cumplir
lo que tu corazón te pedía
pero tú así viviste, como miles otras,
no preguntándote más
adónde es que quisieras irte.


*

Non sei arrivata dove volevi.

La tua mappa se l’è mangiata una capra
eppure no, non è stato per questo,
quel disegno ce l’avevi in testa
e l’avevi depositato sulla carta
per l’amore verso la calligrafia, i colori.

Il tuo ronzino precipitò in un burrone
mentre stavi dormendo
e hai dovuto affidarti ai tuoi passi,
eppure neppure quella fu la ragione
era già molto vecchio il poveretto
e aveva collezionato più acciacchi
che il cielo punti e virgola,
morire fu anche la tua liberazione.

Non sei arrivata dove volevi
ragazzina dalla chioma brillante,
hai raggiunto una palude
e affittato una canoa
in cambio dei tuoi orecchini
(gli orecchini d’oro che tua nonna
ti aveva regalato poco prima
che il suo letto diventasse freddo).

All’inizio è stato difficile
abituarsi a quel villaggio,
agli sguardi di chi
senza parlarti ti diceva straniera.
Poi ti sei sposata, hai preso cura della casa,
hai avuto figli e sei stata felice chissà
a tuo modo, col tuo grande sorriso.

Chi lo sa se fu suicidio non fare
quello che il cuore ti reclamava
ma tu hai vissuto così, come mille altre,
non chiedendoti più
verso dove volevi andare.


CANTO DE CURACIÓN

He recorrido el mundo
pero a pocos pasos
quedaba ese amor
carnal y dulce,
esa pulpa de guayaba
que quita sed, ¡areyó!

Han llenado mis ojos
diáfanas visiones
y he aprendido a vivir
y ser mi sueño en acto,
todo me ha llenado
no saciado, ¡areyó!

Colgando de mi cuello
mi alegría está pero tú
me quisiste donar
un collar de tristeza
- esa que había sepultado
entre olas y orcas -
y el hilo es de alambre
y se clava
a cada rato
no en mi pecho
no no no, ¡areyó!

Alrededor del fogón estoy
mi cuerpo tendido
y plantas machacadas
desprenden un aroma
y la estela que dibujan
en el aire temblante
es lo más consistente
que hay ahora, aquí.
Mis ojos-relámpagos
anuncian más allá
de las yermas colinas
un presagio que no
no sé sabe si será.

Canto a solas, ¡areyó!
¡Canto a solas, areyó!

En el tiempo veraniego
el paisaje se amarillea,
algo muere adentro
y resucitará pronto;
la cadencia de cigarras
envuelve en el destino
vagabundo de las entidades.

Canto a solas por mi alma
y no acudo a la brujería,
no a la magia negra
y he matado al alacrán
que moraba en mí:
canto por mi salvación,
por un destino amargo
que desviar, ¡areyó!

Despistada andas por ahí
en los caminos de arena
entre las peñas de fuego
y debo buscarte
y debo llevarte
a tu lugar, ¡areyó!

Son horas y horas
de cantos y brincos,
tendré que dejar la palabra
y hablar de otra forma
para tu curación, ¡areyó!


CANTO DELLA GUARIGIONE

Ho visto il mondo
ma a pochi passi
restava quell’amore
carnale e dolce,
quella polpa di guaiava
a togliere la sete, areyò! (*)

Hanno colmato i miei occhi
diafane visioni
e ho imparato a vivere
essere il mio sogno in azione,
tutto mi ha riempito
non saziato, areyò!

Appesa al collo
sta la mia allegria ma tu
hai voluto donarmi
una collana di tristezza
- quella che avevo sepolto
tra onde ed orche -
e il filo è spinato
e si conficca
ogni secondo
non nel mio petto
no no no, areyò!

Accanto al fuoco giaccio
disteso il mio corpo
e piante pestate
emanano un aroma
e la scia che disegnano
nell’aria tremante
è quanto di più consistente
ad esserci adesso, qui.
I miei occhi-fulmini
annunciano al di là
delle deserte colline
un presagio che no
non si sa se sarà.

Canto da sola, areyò!
Canto da sola, areyò!

Nel tempo estivo
il paesaggio ingiallisce
qualcosa muore dentro
e resusciterà presto;
la cadenza di cicale
avvolge nel destino
vagabondo delle entità.

Canto da sola per la mia anima
e non ricorro alla stregoneria,
neppure alla magia nera
e ho ucciso lo scorpione
che abitava in me:
canto per la mia salvezza,
per un destino amaro
da deviare, areyò!

Spaesata cammini lì
lungo sentieri di sabbia
tra le rocce di fuoco
e devo cercarti
e devo riportarti
al tuo luogo, areyò!

Sono ore su ore
di canti e salti,
dovrò abbandonare la parola
e parlare in altro modo
per la tua guarigione, areyò!

(*) È una voce onomatopeica e riproduce il canto che accompagna il rituale sciamanico.




luciacupertino@email.it