FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 42
aprile/giugno 2016

Residenze

 

UN POSTO SULLA TERRA

di Francesco Tarquini



Aveva ignorato l’aiuto dell’uomo in completo grigio che era sceso dalla macchina e le porgeva la mano, ed era rimasta ferma sul marciapiede giusto il tempo di assorbire in un’occhiata l’imponenza della facciata neobarocca color panna col suo pesante balcone al piano nobile, sorretto da cariatidi corrose. Il più antico albergo della città, ben piantato sulle fondamenta, addormentato come un vecchio dio di pietra. La porta girò per lasciarla entrare mentre un paio di inservienti accorrevano a prenderle le valigie e l’uomo la accompagnava, garbato e impeccabile, al banco della reception; il concierge prendeva il suo passaporto e subito si chinava su un registro per una rapida annotazione.

Prima che entrasse nell’ascensore, Morelli la vide voltarsi a guardare l’uomo che si avviava all’uscita dopo un saluto cerimonioso accompagnato da frasi accolte da lei con brevi cenni del capo. E qualche tempo dopo – un quarto d’ora? o forse mezz’ora, non faceva differenza per lui, affondato in una poltrona in un salone da cui lo sguardo dominava la hall, la reception, gli ascensori, riflessi in un grande specchio a parete – la vide apparire di nuovo, avvicinarsi al banco e chiedere qualcosa all’impiegato; poi parve accodarsi a un gruppetto diretto all’uscita, ma subito tornò sui propri passi per entrare nel salone e sedersi su un divano non lontano da lui, come se d’istinto – o così poté credere Morelli – cercasse il sostegno di una presenza. La vide guardarsi intorno, sfogliare distrattamente delle riviste, alzare ogni tanto la testa come se aspettasse qualcuno, accendere una sigaretta. O come se non aspettasse nessuno, raccolti dietro la nuca i capelli biondi screziati di sfumature cinerine.

Ne cercò lo sguardo e le rivolse un accenno di saluto, che lei ricambiò dopo una breve esitazione. Poi distolse gli occhi ignorando il sorriso che lui abbozzava, e si mise a fissare il rettangolo inquadrato dalla vetrata, il tratto di lungofiume sul quale si ergeva una lunga teoria di tigli frustati da una pioggia sottile, e dove si accalcavano pigiate l’una contro l’altra automobili bloccate, oltre il confine del quadro, da un semaforo invisibile; sempre la stessa immagine ogni pomeriggio alla stessa ora, simile a una fotografia ingrandita decine di volte e fissata a una parete compatta.

Quella sera fu Malvani a notarla per primo – ehi, mica male, commentò – mentre avanzava accompagnata da un cameriere fino al tavolo apparecchiato per lei sola, poco discosto dal loro, i capelli adesso sciolti in un’ondata che arrivava alle spalle. Morelli la osservò con discrezione mentre il sommelier stappava una mezza bottiglia e si portava il tappo alle narici prima di versarle un po’ di vino bianco che spumeggiò brevemente nel bicchiere a calice; e lei, come distratta – così sembrò a Morelli –, restava immobile poi si riscuoteva al suono delle parole cerimoniose dell’uomo, che le riempiva a metà il bicchiere e poi si allontanava dopo aver sistemato la bottiglia nel secchiello del ghiaccio.

Forse fu soltanto il modo in cui portava il bicchiere alle labbra, o gli occhi socchiusi nell’assaggiare il vino: dettagli banali, gesti simili a tanti altri, e tuttavia per qualche istante unici per Morelli che colse sui capelli biondi di lei, come in un’epifania, un certo riflesso di luce: quella luce. Non avrebbe saputo definirla in altro modo. E l’azzurro negli occhi: quell’azzurro. Gli parve allora che la donna provenisse da un ricordo, fluttuante come un’ombra e immediatamente fuggitivo. Come se attraversando gli anni lei portasse ancora in sé, intatti, aspetti che un giorno dovevano averla resa speciale, per lui; ma quando? dove?

Il nome, Dora, non gli disse nulla, e il cognome – slavo? – si perse nelle presentazioni di cui all’arrivo del dessert Ferluga aveva preso l’iniziativa; e subito Malvani si era alzato, precipitandosi a offrirle il proprio accendino con un’affettazione fuori luogo, invocando il comune stato di stranieri in luogo straniero; e lei non ebbe alcuna reazione, né mostrò familiarità con il nome e le fattezze di Morelli anche lui in piedi con la mano tesa. Poi, adducendo la lunga durata del viaggio e il bisogno di riposare, si alzò e si allontanò lasciando il semifreddo intatto.

Chissà se la signora gioca a bridge, disse allora Malvani.

Ferluga parve riflettere a lungo prima di rilanciare con un sorrisetto compiaciuto, e Morelli si ritirò mentre Malvani rilanciava a sua volta, costringendo l’altro a scoprire, con aria seccata, una doppia coppia davanti alla sua scala al re. Davanti agli occhi di Morelli – giocava distratto, quella sera – stava ancora l’immagine della porta girevole che per un brevissimo istante, qualche ora prima, aveva riflesso la snella figura femminile che entrava in una nuvola di bagagli, moltiplicata nell’improvviso scomparire dei tigli alle sue spalle, simili a quinte teatrali in un mutare di scena.

– Ti ripeti – commentò Malvani. – Prevedibile come il passato.

Ferluga alzò le spalle e prese a mescolare di nuovo le carte.

Ma davvero il passato, pensò Morelli, era prevedibile?

– Pare che stiano aspettando un altro gruppo – disse. – Per domani. Così dice il portiere di giorno.

Malvani alzò la testa dalla manciata di fiches che aveva appena raccolto.

– Una bella seccatura. Faranno un chiasso del diavolo. E intanto finiremo per invecchiarci, qua dentro.

Ferluga riaccese un mozzicone di sigaro appoggiato sul bordo del tavolo. Infastidito, Morelli tossì. L’altro lo guardò tirando una lunga boccata di fumo. Risatine, brevi frasi sommesse giungevano di tanto in tanto dai tavoli da gioco illuminati da basse lampade che lasciavano il resto della sala immersa nella penombra.

Soffiava da tre giorni vento umido dal nord, rendendo più indolente e noiosa l’inattività cui erano costretti; non interessati del resto alla visita della città e dei suoi monumenti sui quali fitte piogge quotidiane stendevano un velo di sabbia sporca. Morelli slacciò la cravatta e si mise a sfogliare le carte senza convinzione.

– Bella donna, comunque – disse Malvani.

– In che senso, comunque – Morelli alzò lo sguardo dalle carte. L’altro gli rivolse una strizzata d’occhi. Chissà se la signora gioca a bridge, aveva detto a mezza voce e come tra sé mentre lei scompariva oltre la porta a vetri uscendo dalla sala da pranzo. Esprimendo – così aveva pensato Morelli – una dubbiosa speranza piuttosto che una domanda inopinata. Certo, avrebbero potuto essere in quattro, sempre che la signora conoscesse il bridge – la vita non era una serie di ipotesi? – e accettasse di giocare con loro introducendo un apprezzabile cambiamento nella routine del poker serale, scuotendoli dall’apatia in cui sembravano esser caduti in quei giorni di attesa forzata, simile a quella di un gatto acquattato sul ripiano di un armadio tra sciarpe e pullover di lana.

Durante l’ascesa al terzo piano, – subito sotto il paradiso, amava ripetere Malvani, ma stasera taceva –, erano rimasti in silenzio, fino al lungo corridoio sul cui pavimento si estendeva un’ampia striscia di moquette avana.

Nella sua stanza aveva lasciato le finestre aperte, e da queste filtrava adesso attraverso gli alberi la luce giallastra dei lampioni sul lungofiume sorvolato dal gracidìo insistente dei gabbiani.

Prima di coricarsi avrebbe, come ogni sera, tirato fuori la pistola da sotto il mucchio delle camicie, rigirandosela fra le mani e lucidandola accuratamente nel solito rito apotropaico. Anche se la persona che dovevano incontrare non sarebbe venuta – aspettate ancora, era stata l’ultima, laconica risposta telefonica alle loro domande –, lo avevano capito tutti e tre ma non se lo sarebbero detto, e avrebbero continuato ad approfittare di quello stato di inazione, somigliante a un’insperata seppur noiosa vacanza.

Si avvicinò a una finestra e osservò il fiume scorrere schiumoso e torbido sotto la città vecchia aggrappata alla collina punteggiata di luci, dominata dallo slancio verticale del duomo. Si accorse solo allora che il vento aveva cambiato direzione e che aveva smesso di piovere.

Accese il lampadario, e le gocce di cristallo brillarono di una luminosità sfaccettata. Si tolse le scarpe con immediato sollievo al contatto con il tappeto. Cominciò a spogliarsi, provando ancora stupore a motivo di quel ricordo cui non riusciva a dare consistenza.

Se davvero era un ricordo. Lei non aveva riconosciuto in lui nulla che le fosse noto, questo era evidente. Forse era stato uno scherzo della sua antica abitudine di osservare fissamente le persone – in caffè, stazioni ed aeroporti, ristoranti, alberghi –, il loro aspetto, i loro gesti e voci – anche in strada, e prima ancora sui banchi di scuola –, astraendosi in fantasticherie in cui attribuiva loro personalità e vicende fittizie. Vuoi diventare uno scrittore, affermò una volta sua madre – lui si era strappato dalla contemplazione sentendo lo sguardo di lei –: o soltanto lo domandò, con una piccola carezza, e poi le cose erano rotolate via per altre dimensioni.

E magari stavolta l’affabulazione aveva preso vita senza che lui se ne rendesse conto, come se invece di dominare il fenomeno egli ne fosse divenuto per qualche momento succube. Di fronte allo specchio del bagno, sorrise all’idea che una sconosciuta che aveva attratto la sua attenzione mentre si aggirava senza far niente nella hall, lo avesse colpito al punto di fargli credere di averla già incontrata. Lo attraversò ad un tratto l’idea che si fosse trattato solo di una di quelle associazioni trasognate e illusorie che rivelano un alterato funzionamento della memoria.

La sua memoria, ben allenata come era indispensabile nel suo lavoro. Le sue liste di oggetti, persone, date, eventi da ricordare. Una falla, una stortura, sarebbe stato un precedente di cui percepì il pericolo. Ripercorse con attenzione le vicende degli ultimi sei mesi e non sperimentò nessun ritardo, nessuna esitazione. Tutto era al suo posto, anche le parole che aveva dette in questa o quella circostanza, e le risposte ricevute, e il giorno e l’ora e il dove.

Si mise a letto e spense la luce. E di nuovo la vide apparire mentre entrava dalla porta girevole, o piuttosto incedeva, ecco, si sarebbe detto che incedeva, un corpo snello ed elegante, seguita dalle valigie fra le quali lui aveva scorto un grosso astuccio nero, certo un violoncello nella sua custodia. O meglio una custodia di violoncello, aveva pensato in quel momento e infatti poteva davvero contenere, secondo un usurato cliché, qualsiasi altro oggetto, mai credere in ciò che appare, non era questa la prima regola del suo mestiere? La vita in fondo non è che una serie di ipotesi, e niente è mai come sembra.

Come ogni sera per scacciare l’insonnia si concentrò su un punto immaginario sotto le palpebre abbassate, lasciando fluire e mescolarsi in uno sfarfallio di colori immagini e parole che a poco poco si sarebbero dissolte. E con queste entrò una frase musicale, un tema noto, no, non Shostakovich, suona e si ripete e lo chiama, il suo primo concerto e un violoncello in un’altra vita in cui è ancora un ragazzetto ben educato alle soglie del liceo, un autore del ’900, certo, non ne ricorda il nome, il motivo si ripete, ancora e ancora, per sciogliersi poi in un rintoccare di campane che annunciano una qualche ora della notte nella quale Morelli affonda senza sogni.

Aveva l’abitudine di svegliarsi presto, incapace di addormentarsi di nuovo; e attraverso la porta a vetri della sala da pranzo semivuota la aveva vista subito, i capelli ancora sciolti sulle spalle, meno giovane di quanto gli era sembrata il giorno prima; seduta davanti a una teiera il cui contenuto si stava versando con una mano mentre con l’altra teneva una fetta di pane imburrato. Sulla vetrata sul lungofiume le tende erano state tirate per lasciar entrare una luce pallida, filtrata da nuvole basse che il vento stava lentamente portandosi via.

Lei aveva sollevato la testa e gli aveva rivolto un sorriso rilassato in cui non apparivano tracce del formalismo della sera prima – si scusava nel suo inglese, armonioso nonostante l’accento straniero, era così stanca e agitata –, né dell’atteggiamento nervoso che Morelli aveva potuto cogliere al suo arrivo. Lui fece per sedersi e con naturalezza la donna – Dora, ricordò – lo invitò al suo tavolo, sul quale egli depose la sua grande tazza di caffè nero. Affari, rispose alla domanda dopo le prime battute formali, importazioni, disse; ma lei sembrava non ascoltarlo sul serio, pressata piuttosto dall’urgenza di raccontare a qualcuno – chiunque fosse, pensò Morelli – della chiamata inattesa, del contratto che avrebbe firmato legandosi a una celebre orchestra che egli constatò malinconicamente di non aver mai ascoltato.

– Ottenere qualcosa che non si è mai osato desiderare – disse lei. – Mi scusi, la sto annoiando – aggiunse, e si coprì la bocca con la mano destra sulla quale, mentre si affrettava a rassicurarla, Morelli notò un piccolo anello d’argento.

L’insignificante città dell’Europa orientale in cui era nata, il conservatorio, le tappe della carriera succintamente riassunte, rendevano impossibile l’eventualità di un precedente incontro. Ma questo non aveva più importanza, contava soltanto il fatto di esser seduto a quel tavolo con quella donna e ascoltarla, presa come sembrava da un inesplicabile desiderio di confidenze; come se trovasse nell’aspetto di lui – pensò Morelli, sorpreso – qualcosa di rassicurante, capace di indurre un’atmosfera di familiarità.

– Sono stanca, sa?, di girare da un paese all’altro, valigie, alberghi, sale prove, concerti. Senza quasi mai il tempo di guardare fuori. Io e la musica. Esaltante. È tutta la mia vita. Ma mi piacerebbe l’idea di tornare davvero a casa, ogni tanto. Ho un piccolo appartamento, sì, ma quando ci torno a volte non disfo neppure le valigie.

Guardava un punto indefinito, al di là dell’uomo che la ascoltava, e alzava un poco la testa sollevando il mento; i capelli ricaddero all’indietro e in quel momento a lui parve di vederla per la prima volta, in piena luce, scoprendo – o riconoscendo? – in quella donna una composta, riservata bellezza.

– Insomma, mi piacerebbe sapere che ho un posto sulla terra. – Rise. – O più semplicemente un posto dove stare. E magari adesso lo ho trovato.

– Mi farebbe bene una passeggiata – aggiunse, – il tempo passerà più in fretta e quando torneremo il messaggio che aspetto sarà arrivato.

E lui la accompagnava – o la seguiva? –, il fiume sotto di loro, e sopra le loro teste le chiome dei tigli, e poi le strade dell’antica città in salita fra muri stretti, edifici sui quali si era depositato il tempo della storia, sospeso in un presente immutabile. Ottenere qualcosa che non si è mai osato desiderare, aveva detto pocanzi. E mentre cercava di comunicargli il proprio entusiasmo alla vista dell’isola avvolta in un verde scuro, rigoglioso – adesso era Dora, per lui –, Morelli provò un senso di amarezza. Poteva ancora permettersi di desiderare? Ed era un posto sulla terra, quello che sua moglie aveva messo su tanti anni prima, quella dimora sporadica dove nessuno ormai lo aspettava? Piuttosto erano forse gli alberghi il suo posto, gli alberghi tutti uguali ma di ciascuno dei quali la memoria conservava inutilmente dettagli, odori, atmosfere.

Nel cielo umido ancora di pioggia le nuvole si andavano strappando sotto l’effetto di un vento di ponente, lasciando apparire larghi spazi celesti dei quali la gente approfittava affollando i caffè sulla vasta piazza squadrata in cui la cattedrale innalzava la sua stretta, irta facciata gotica.

– Non so perché ma mi viene così naturale chiacchierare con lei – stava dicendo Dora. – Mi sembra di starne approfittando – aggiunse.

Morelli sentì pesare le regole imprescindibili che lo costringevano a mentirle sulla propria vita, e in quel peso c’era come la consapevolezza di un tradimento. Lei seguitava a dire di sé, di Bach e della Suite numero 1, del suo strumento nuovo, un regalo alla vigilia della partenza; e come per una giocosa casualità scoprirono in una viuzza tortuosa che si dipartiva dalla piazza un modesto, appartato negozio di strumenti musicali, e si fermarono ad ascoltare una melodia proveniente dall’interno in penombra, suonata su una fisarmonica da mani che scorrevano abilissime, veloci.

– Ha mai suonato uno strumento? – chiese lei a bassa voce. – Da bambino?

Morelli fece cenno di no.

– Però mi piaceva, la musica. Mi piace, voglio dire. Andavo ai concerti. Con mia madre.

Tutti insieme gli strumenti tacevano, terminata l’accordatura – lui attendeva sempre quel momento con un’emozione che pareva fargli il cuore più stretto –, ed entrava velocemente il direttore dalla destra della scena – o dal lato opposto? –, stringeva la mano al primo violino, saliva sul podio e le luci si abbassavano. In quell’attimo, mentre il direttore alzava la bacchetta rivolto all’orchestra come in un abbraccio, sua madre gli prendeva la mano nella sua, e la stringeva forte.

Un uomo alto e magro li accolse nel negozio, tenendo fra i denti una pipa spenta. La fisarmonica si era azzittita e loro erano entrati, in un disordinato insieme di vecchi strumenti ammassati dovunque, allineati alle pareti, appesi a corde che attraversavano il locale da un muro all’altro. In un angolo sul fondo c’era un pianoforte impolverato, sulla cui tastiera Dora accennò un nucleo melodico che in brevi istanti si spense.

A Morelli tornò in mente la musica che si era insinuata nel suo dormiveglia, la sera prima. Volle chiederne il titolo, l’autore. Si accinse, timidamente, a canticchiarlo. Ma non lo ricordava più.

– Succede – rise lei. – Non ha di che preoccuparsi.

Gli sfiorò un braccio con la mano, lasciandovela per qualche istante; e mentre vanamente si sforzava di far risalire a galla quella musica, di nuovo egli colse sul viso di lei – in una improvvisa stretta del respiro e stavolta con piena certezza, – sul viso di lei solo in parte illuminato da una lampada verdognola che scendeva dal soffitto, nel gesto della mano che lo toccava, nei capelli che ora scopriva un po’ venati di grigio, in quel riso sulla sua bocca, un’immagine nota e tuttavia ferma sotto il bordo della memoria, in attesa di una rivelazione che non arrivava.

Non disse nulla, non avrebbe potuto. Seduto in una poltrona sconnessa, l’uomo della fisarmonica aveva riacceso la sua pipa, e li salutò mentre Morelli seguiva Dora nel vicolo, scoprendo con stupore un riverbero luminoso sul muro di fronte. Passò fra loro di corsa un gruppetto ciarliero di bambini appena usciti di scuola, scalpicciando nelle pozzanghere e separandoli l’uno dall’altra. E lui la vide, in quegli attimi, così lontana, come se si trovassero, loro due, sulle sponde opposte del fiume. Non mostrava di aver di lui nessun ricordo, e lui avrebbe continuato a rimestare senza risultato.

Attraversato il ponte che portava all’isola scesero per gradini di pietra alla riva, dove uno stretto fronte di alberi allungava i rami sull’acqua, che riluceva di scintillii dorati ondulanti sotto il vento leggero cui facevano da filtro le foglie.

– C’è il sole – disse Dora.

– Guardi l’acqua come si muove, sembrano tante farfalle – gridò poi mentre passeggiavano sulla banchina, e a Morelli parve di vedere uno sciame di farfalle colorate svolazzare sulla superficie dell’acqua; l’albergo, Malvani, Ferluga, la persona che doveva arrivare, tutto gli parve estraneo, parte di un altro tempo.

Mangiarono trote appena pescate e bevvero un vino bianco, leggero, al riparo della tettoia di un piccolo ristorante il cui proprietario grasso e gentile si era affrettato a sistemare tavolini all’aperto.

– Così, sua madre la portava ai concerti. Doveva essere bella sua madre, non è vero?

Lui sorrise. In fondo c’era, nella sua vita, qualcosa di cui poteva parlare liberamente. Ricordò quel vestito riservato all’ascolto della musica, quell’abito che lo faceva sentire così fiero quando entrava al fianco della madre nella sala dei concerti e del quale adesso non avrebbe saputo dire il colore; era bella, sì, la chioma nera raccolta in uno chignon, gli occhi scuri, la bocca sulla quale si stendeva appena un velo di rossetto.

Gli occhi scuri. Neri, marroni, nocciola. Turbato, scoprì di non ricordare l’esatto colore di quegli occhi. Allora tacque, e anche lei, Dora, stette in silenzio. Le rive si andavano popolando di pescatori con le loro canne e i loro cestini, sollecitati da quel mutamento capriccioso e inspiegabile che dopo il maltempo sembrava aver portato di colpo un’altra stagione.

– Posso? – chiese lei dopo qualche minuto tirando fuori un pacchetto di sigarette.

Fumò lentamente, osservando l’acqua, sempre in silenzio. E quel silenzio portava alla rinfusa fino a lui dal fondo dei ricordi – perplesso e intrigato com’era di fronte all’interesse che quella donna, Dora, pareva mostrare –, una massa di dettagli sfocati, incompleti. Nessun episodio particolare, nessuna immagine. Pensò allora di aver molto dimenticato, di aver allontanato da sé senza mai rendersene conto una parte dei suoi anni, come se non ci fosse abbastanza posto per loro.

Aveva spostato la sedia e allungato le gambe verso la riva, e si guardò le scarpe impolverate, vecchie, sua madre gli chiedeva a volte se fosse sicuro di aver messo le scarpe adatte, sì, questo lo ricordava, sbagli sempre le scarpe, figlio mio; gli parve che adesso anche Dora le stesse osservando con aria critica, e ritirò i piedi sotto la sedia.

E fu in quel momento che udì la propria voce che diceva, è strano come a volte un luogo, o una persona, ci diano l’impressione di averli già visti.

Lei lo fissò incuriosita. Davanti al suo sguardo lui non riuscì, non ebbe il coraggio di continuare, timoroso di turbare in maniera goffa e inopportuna l’armonia di quelle ore, così insolita e inattesa. E dette una risposta qualsiasi a proposito di quel luogo ameno che gli era parso, diceva, di conoscere già ma che certo somigliava semplicemente a qualche altro posto dimenticato.

Il concierge le aveva porto un biglietto e Dora si illuminò. Il salone era pieno di ricchi anziani chiassosi, eccitati all’idea della gita all’isola e ai suoi celebrati giardini.

– È per domattina – annunciò lei con un sorriso felice. – Devo ringraziarla, è stata una bella giornata. Lei mi ha fatto quasi dimenticare l’attesa.

Sembrava che stesse per avviarsi all’ascensore dopo aver ritirato la chiave, ma si fermò a guardarlo. Gli tese la mano.

– Grazie, davvero. A più tardi.

Ma non era scesa, a cena, e Morelli cercò di sfuggire a qualche commento allusivo del solito Malvani chiedendo se c’erano notizie. C’erano, sì, non verrà, rientrate, diceva il messaggio, laconico come era giusto aspettarselo. Meno male, la cosa stava diventando noiosa come una caccia al tesoro, commentò Ferluga; avevano riso e Malvani aveva guardato Ferluga con evidente invidia per la battuta.

Dunque finiva così, domani sarebbe rientrato col primo volo e Dora sarebbe andata al suo appuntamento e avrebbe suonato la sua musica e avrebbe trovato il suo posto sulla terra, e lui avrebbe potuto ancora credere di averla già incontrata. O forse tutto gli si sarebbe confuso nella memoria, e disperso.

– Beh, ragazzi, sembra che siamo liberi – aveva detto Malvani.

Liberi. Cosa se ne sarebbe fatto, di quella libertà, si disse più tardi in camera sua, mentre osservava allo specchio il proprio corpo svestito, sempre asciutto, agile. Come suonava vuota, quella parola, libertà. Gli venne in mente il proprio nome. Immaginò di ascoltarlo dalle labbra di un altro, e gli sembrò quello di un estraneo. Si sentì stanco, di un’improvvisa stanchezza che pesava nel corpo, nella testa, in quelle giornate, in quella appena trascorsa.

Non sa da dove sia venuta, uscita da una nebbia leggera su una pianura di cui lui non vede la fine e gli viene incontro da lontano ma adesso è vicinissima, una bambina sconosciuta la cui vista gli dà chissà perché una fitta dolorosa, ha i capelli biondi in un’ondata che le arriva alle spalle, si accosta e posa nei suoi occhi incantati i suoi occhi azzurri, gli sfiora un braccio con la mano e sorride e in quel momento i capelli si infiammano in un bagliore e poi di colpo non c’è più, e non si sono detti una sola parola.

Mentre sognava, Morelli sapeva di aver già fatto quel sogno. In mezzo, stava un’intera vita.

Non udì gli spari nelle stanze accanto. Perché era già sceso per la colazione; sul tavolo di Dora un tovagliolo giaceva, spiegazzato, accanto a una tazza in cui c’era ancora un fondo di tè.

Del resto non avrebbe potuto in alcun modo udirli dato che sulla canna dell’arma era avvitato un silenziatore, e forse non udì neppure il clack appena prima che il proiettile lo colpisse dritto nella schiena e raggiungesse il cuore mentre camminava sul lungofiume, per andare non sapeva bene dove.

Esce in giardino nella mattina estiva, ignorando la voce di sua nonna che lo chiama a far colazione, e va a nascondersi sotto un’ombra cespugliosa; e si aggrappa al sogno perché non sfugga, perché non si dilegui quella bambina che gli dà un dolore mai provato, ma quella svanisce lasciandogli un ignoto senso d’abbandono, dolore sordo che lui vorrebbe non passasse mai, vorrebbe che lei, adesso, fuori del sogno, gli apparisse ancora, impedendo che arrivi a sopraffarlo il giorno con i suoi richiami.

Tentò di ritrovare il respiro che gli veniva meno, come se l’ossigeno avesse smesso all’improvviso di circolargli nel corpo. Dunque alla fine era arrivato, colui che aspettavano. E così adesso anche per lui, Morelli, sarebbe stato qui, come per Dora, il posto sulla terra. Irrompendo fra i tigli mentre lui cadeva a faccia avanti, il sole lo accecò. Non aveva le scarpe adatte, fu il pensiero di quel momento, e poi quando mai aveva messo le scarpe adatte, in vita sua.


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