FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 42
aprile/giugno 2016

Residenze

 

LA PRIGIONE DELLA FELICITÀ
Un commento al Diario della felicità di Nicolae Steinhardt

di Armando Santarelli



Non credo di esagerare affermando che la parabola umana, culturale e spirituale di Nicolae Steinhardt sia fra le più interessanti e significative dell’intero XX secolo. La sua vita e i suoi scritti sono la testimonianza di una volontà decisa a sottrarsi all’inganno di un’esistenza futile e priva di senso; un’esperienza estrema lo affrancherà dagli inutili smarrimenti metafisici in cui si disperdono alcuni spiriti pseudo-religiosi, indirizzandolo verso la conquista di una fede che lo allontana dal proprio ego per condurlo ad un amore quasi francescano, perché teso ad abbracciare ogni essere umano, ogni creatura.

Nicolae Aurelian Steinhardt nacque il 12 luglio 1912 nel villaggio di Pantelimon, alla periferia di Bucarest, in una famiglia di origine ebraica. Terminati gli studi liceali, si laureò in Lettere e Giurisprudenza presso l’Università di Bucarest, e iniziò a frequentare il cenacolo letterario Sburatorul, diretto dal critico E. Lovinescu. Dopo diversi viaggi in Svizzera, Austria, Francia e Gran Bretagna, Steinhardt divenne redattore dell’importante Revista Fundatiilor Regale, dalla quale venne però allontanato a causa della “purificazione etnica” voluta dal regime fascista romeno.

Pur essendosi salvato dalla deportazione, nel periodo della dittatura di Antonescu fu costretto a esercitare i lavori più umili. Dopo il 1944 tornò a lavorare per la Revista Fundatiilor Regale, ma questa fu soppressa nel 1948, stavolta dai comunisti. Rifiutatosi di collaborare con la Securitate come testimone di accusa contro il filosofo (e amico) Constantin Noica, il 4 gennaio 1960 venne arrestato e condannato a tredici anni di prigione. Nelle carceri comuniste si verifica la rivoluzione interiore che segnerà tutta la sua vita e che lo porterà ad abbracciare il cristianesimo ortodosso; significativo è il fatto che il rito con il quale Steinhardt coronerà il desiderio di essere battezzato sarà officiato da ecclesiastici di tutte le confessioni cristiane, conferendo al sacramento un carattere ecumenico.

Dopo quasi quattro anni di internamento, Steinhardt può beneficiare del decreto di condono per i reati politici ed è rimesso in libertà. Inizia qui l’attività letteraria che ci ha consegnato opere come In genul… tinerilor (Alla maniera… dei giovani), Ȋntre viață şi cărți (Tra vita e libri), Escale ȋn spațiu si timp (Soste nello spazio e nel tempo), Jurnalul fericirii (Diario della felicità), Primejdia mărturisirii – Convorbiri cu Ioan Pintea (Il pericolo delle confessioni- Conversazioni con Ioan Pintea) e migliaia di articoli, traduzioni, note e recensioni pubblicate su varie riviste.

Fra questi pregevoli scritti, non c’è alcun dubbio che un posto privilegiato spetti al Diario della felicità. Il perché è presto detto: il Jurnalul è il contributo più importante – sicuramente uno dei più significativi – nel panorama della storiografia culturale e della letteratura memorialistica e spirituale relativa ai quarant’anni di dittatura comunista in Romania. Opera pluridiscorsiva e multiforme, il Diario è la testimonianza del filo ininterrotto che continua a tenere unito il mondo della vita con la conquista di una fede salvifica, quella che donerà a Steinhardt la felicità interiore che lo accompagnerà sino alla morte (marzo 1989) nel piccolo monastero di Rohia, nel Maramures, dove era entrato nelle vesti del monaco Nicolae Delarohia.

In un libro posteriore, Primejdia, Steinhardt sintetizzerà mirabilmente il percorso spirituale descritto nel Diario: “No, non mi sono avviato al cristianesimo (…) per vie storiche, esegetiche, archeologiche, comparativistiche, non intellettualizzando, ragionando, comparando, studiando, riflettendo in modo selettivo, ma solo per la strada incantata dell’amore”.

Ma che cos’è, com’è strutturato questo libro, la cui importanza e diffusione cresce di anno in anno, e non solo nell’ambito delle Nazioni ortodosse?
Il Jurnalul, come recita il titolo, è un’opera costruita in forma di diario, un diario, però, redatto non secondo un ordine cronologico, ma concepito assecondando il libero flusso della memoria. E proprio la discontinuità cronologico-narrativa costituisce una delle qualità da cui il Jurnalul trae la sua singolarità e la sua forza espressiva. Consapevole della parzialità del recupero memoriale, della relatività di ogni sistemazione storiografica, della molteplicità dei percorsi interpretativi, Steinhardt adatta i tempi verbali alle finalità della narrazione, secondo associazioni per cui gli eventi sono ricondotti non dalla storia all’interiorità, ma, all’opposto, dall’interiorità alla storia.

Una brillante pluralità tematica e stilistica percorre tutto il Jurnalul, tanto che a volte si pensa di trovarsi dinanzi a una sorta di moderna satura, densa di motivi e registri letterari; eppure, nel Jurnalul, “tout se tient”, e i brani storici e letterari, le riflessioni filosofiche, le citazioni colte e appropriate, i ritratti vivissimi di amici e conoscenti, i flashback, gli intervalli narrativi che riflettono i dialoghi in prigione (Boogie mambo rag), tutto è organicamente correlato all’intentio auctoris, che è quella di riportare nel modo più concreto il percorso interiore che lo ha condotto alla fede cristiana.

In poche testimonianze autobiografiche il Cristianesimo è stato connotato con una semplicità e allo stesso tempo con una così singolare ricchezza semantica e spirituale. “Il Cristianesimo”, scrive Steinhardt, “non è per gli uomini che vi vedono una specie di vago e mite cretinismo, buono per i bigotti e i creduloni. Il Cristianesimo è bollore, è scandalo, è pura follia, più audace e più esigente di qualunque teoria estremista. È una superdistensione, un super LSD. A paragone della dottrina cristiana, delle sue richieste e dei risultati, tutti gli stupefacenti e gli allucinogeni sono un impiastro, una diluzione minima Hanemann, un ferro vecchio”. E ancora: “Non uso un linguaggio esagerato e denigratore quando affermo, forte e chiaro, che il cristianesimo è come la ricetta americana della felicità ed il libro di Dale Carnegie (Come vincere lo stress e cominciare a vivere, n.d.a.) elevati alla potenza n”.

Parole forti, sembra di ascoltare un San Paolo moderno, che al furore oratorio unisce l’esigenza della sistemazione del pensiero in una dottrina implacabilmente chiara e calata nella prassi. Perché quando si tratta di enucleare le virtù che caratterizzano un vero cristiano, Steinhardt non manifesta incertezze dottrinarie, non si perde in complessità teologiche, ma indica con ammirevole nitidezza che il cristianesimo si incarna in tre valori fondamentali, che riassumono un’intera teologia:
- l’agape, l’amore universale e disinteressato: “Nel cristianesimo l’amore non è un precetto qualsiasi, è la sola cosa che rimarrà quando sarà scomparso tutto”;
- la gioia interiore: “Il cristianesimo è la religione della felicità. Una buona novella che cosa può produrre se non gioia?”;
- il perdono: “ (Il cristianesimo) è l’insegnamento di Cristo, cioè dell’amore e della forza salvatrice del perdono”.

L’adesione al cristianesimo ortodosso e la trasformazione interiore che ne deriverà a Steinhardt costituiscono l’aspetto del Diario più apprezzato dai lettori e indagato dalla critica. Meno pronunciato è il dibattito intorno a due temi che ritengo particolarmente interessanti e che vorrei qui affrontare: l’uomo Steinhardt come emerge prima della carcerazione e della conversione, e il valore letterario del Jurnalul.

Incastonato nella struttura profonda e complessa del Diario della Felicità, un pensiero semplicissimo contribuisce a definire la cifra morale del Nicolae Steinhardt che non ha ancora conosciuto la grazia della fede: “Noi ci costruiamo da soli l’eterno essere, ma questa eternità – inferno o paradiso – è la variabile di ciò che facciamo. Goccia dopo goccia, giorno dopo giorno, attimo per attimo, azione dopo azione, gesto dopo gesto, il fare prepara il suo permanente essere”.
Dunque, afferma Steinhardt, diventiamo ciò che siamo in virtù del fare quotidiano, inteso, ovviamente, nel senso di agire (praxis), di scegliere le finalità delle proprie azioni e comportarsi di conseguenza.

Già nelle prime pagine del Jurnalul Steinhardt manifesta la sua disapprovazione per coloro che semplificano la vita nella formula algebrica e rassicurante per cui due e due fanno quattro. Steinhardt è convinto che tale formula vada resa aritmetica, cioè calata nella vita reale; i nostri calcoli devono dare delle somme giuste, ma non dal punto di vista matematico, bensì dal punto di vista della morale che sta al di là del puro calcolo, della verità che spesso nascondiamo a noi stessi.

Quelle di Steinhardt non sono vuote parole, perché prima della conversione, della metanoia che lo trasformerà in un altro uomo, egli stesso è chiamato ad una prova morale decisiva per la sua esistenza e quella di altri. Questa prova è l’interrogatorio nell’edificio della Securitate, una delle più emozionanti testimonianze del Diario, splendida rappresentazione scenica dell’assurdo che è sempre in agguato nella nostra vita. Infatti, la prima reazione di Steinhardt alla convocazione nell’Ufficio Investigativo della Securitate è quanto di più singolare si possa immaginare. Steinhardt non vive la novità con paura o angoscia; anzi, si inorgoglisce, si sente calato in un ruolo quasi teatrale che non disdegna di interpretare, quello della vittima che vuole reagire e opporsi al sistema, che può pensare di uscire indenne dalle sue maglie in virtù delle proprie qualità morali e intellettuali. Anch’egli, come Bukovskij quando ricevette la prima convocazione nella sede del KGB, immagina di poter “travolgere come un carro armato” gli uomini della Securitate.

La realtà si incarica subito di smentire queste fantasie. Durante l’interrogatorio, Steinhardt comprende che in un sistema distorto e irrazionale non si può usare la dialettica, la logica, la coerenza, la morale; capisce che in gioco ci sono le vite di innocenti, di uomini che stima e cui vuole bene. Steinhardt si rende conto che è al bivio più importante della sua vita; sa che deve “rendere possibile l’impossibile, superare la prudenza paurosa e la logica sottomessa al calcolo”; sa che dovrà dare prova della virtù che costituisce uno dei nuclei fondamentali della sua scelta esistenziale, il coraggio, parola che si erge su tutte nel Diario, insieme ad un’altra, inscindibile da essa: la libertà.
Bisogna vincere la paura. Al mondo esiste una cosa sola, solo una, il coraggio”. Dunque, resistere alla tentazione del tradimento e della delazione, tacere per non trascinare altri nella tragedia, sopportare sofferenze ed umiliazioni di ogni tipo, sfidare la morte. Non a caso Steinhardt cita più volte le inequivocabili parole del filologo francese Brice Parain: “Devi saper pagare; se vuoi essere libero ti si impone di non aver paura della morte”.

Steinhardt è il testimone vivente di questa verità; la vita è il teatro di una lotta, che ha in palio il bene terreno più importante, la libertà, un bene che il potere tende fisiologicamente a reprimere; ma poiché senza libertà non esiste alcuna possibilità di scegliere, e quindi di vivere secondo la propria essenza, l’uomo deve essere pronto ad affrontare questa battaglia con assoluto coraggio, quindi sprezzando la morte: “Se vuoi essere libero ti si impone di non aver paura della morte”.

La nostra libertà, dunque, è decisa dalle scelte che compiamo ogni giorno in base ai dettami della nostra coscienza. Eppure – ed è un qualcosa che può apparire paradossale – nel Jurnalul Steinhardt adopera solo un paio di volte la parola coscienza. È un dato, questo, che non ho rilevato in nessuno dei commentatori delle opere di Steinhardt, e che, secondo me, ha una rilevanza particolare quando ci riferiamo al periodo che precede la sua conversione religiosa. Steinhardt non sente la necessità di rifarsi alla coscienza perché un uomo della sua tempra morale considera scontato che alcune scelte morali abbiano un’assoluta preminenza su ogni altro pensiero o azione umana. Non è necessario interrogare la coscienza per scegliere di non tradire; il fare in cui si concretizza il messaggio esistenziale di Steinhardt è che non siamo liberi di rispondere in un modo o nell’altro di fronte a simili situazioni.

Se nel Diario della felicità avvertiamo la forza della parola, la sua veridicità, ciò deriva dalla consapevolezza che Steinhardt ha onorato il comandamento morale di non tradire la verità, di non compromettere mai il bene altrui (a rischio della propria vita) ancor prima di appellarsi alla sua coscienza di uomo.
Chiaro che una simile tempra morale costituisce il fertile humus dal quale germoglierà la conversione al cristianesimo, è quanto Steinhardt dichiara sotto la data del 28 agosto 1964:
“Nessuno si fa cristiano, anche se riceve il battesimo tardivamente, come me. Penso che non sia diverso neppure nelle conversioni più impressionanti. La chiamata è sempre precedente, per quanto si possa nascondere in maniera profonda, sottile e abile.”

La trasmutazione interiore di Steinhardt si compirà nella tetra cella di un carcere; lo spazio, per anime come la sua, è solo un’atmosfera morale determinata da chi impregna i luoghi della propria sostanza etica. Come il paesaggio romeno, collegato con il carattere del popolo che lo abita, diventa nel Jurnalul spazio mioritico, così una prigione diventa un luogo di felicità, una felicità che, testimonia Steinhardt, “non avevo conosciuto neppure durante l’infanzia, a Brasov, con la mamma”.

Il valore letterario del Jurnalul è il secondo punto sul quale vorrei soffermarmi.
Il teorico della letteratura Viktor Sklovskij ha affermato che “il contenuto (l’anima) di un’opera letteraria è uguale alla somma dei suoi procedimenti stilistici”. Se questo è vero, nessun dubbio sul fatto che Steinhardt abbia prodotto una grande opera letteraria, una costruzione al contempo multiforme e solida, oltre che pregevole dal punto di vista estetico.
Già le prime pagine del Jurnalul rivelano un’alternanza sapiente di elementi ideali e di talento mimetico, di scarti discontinui e di realismo critico. Solo per fare un esempio, Steinhardt descrive il suo ingresso negli uffici della Securitate e l’interrogatorio di cui è fatto oggetto con un procedimento quasi fotografico, delineando con chiarezza allucinante l’assurdo e infame operato di chi è completamente asservito a un’ideologia.

Non sarebbe necessario evidenziare l’abbandono di ogni morale da parte dei persecutori della Securitate; ma Steinhardt vuole stigmatizzare la loro ottusità, e il commento su quanto accaduto si condensa in una brevissima, ma icastica riflessione: “Sì, loro hanno fatto qualcosa che non era mai stato fatto prima. Finora se volevi distruggere un uomo ti rivolgevi ai suoi nemici: alla moglie da cui aveva divorziato, all’amico da cui si era staccato, al socio che l’aveva trascinato in tribunale; il contributo del nuovo, la novità più rilevante è quella che per annientare un individuo loro non vanno dai suoi nemici, ma dagli amici, dalla moglie, dai figli dalle amanti da quelli che ama e nei quali ha risposto, umanamente, scioccamente, la fiducia e la sete d’affetto”.

Più avanti, abbiamo di nuovo la misura delle capacità artistiche di Steinhardt. È il brano relativo al confronto, voluto dalla Securitate, con Dinu Noica, confronto di cui Steinhardt si rallegra, intravedendovi una possibile, segreta intesa con l’amico, ma che non si svolgerà nelle modalità da lui immaginate. Infatti, a Steinhardt viene intimato di non aprire bocca; quanto a Noica, i carcerieri gli hanno fatto indossare degli occhiali neri (segno e sigillo del padre della menzogna, del principe delle tenebre, annota Steinhardt) e così, quando viene condotto all’interrogatorio, ignora che dinanzi a lui si trovi un altro imputato. La speranza di Steinhardt di sorridere all’amico, di stringergli le mani, di “fare a gara nel negare e nel difenderci reciprocamente”, si rivela subito una pia illusione; l’ottusità del congegno concentrazionista fa saltare ogni logica, ogni umanità. E Steinhardt, usando in modo efficace l’amplificazione e l’anafora, commenta in modo splendido: “Il mio copione è andato in fumo. Siamo nello stesso ambiente, eppure viaggiamo su orbite diverse – lui è su Alpha Centauri – come gli elettroni senz’anima, come le nazioni ostili di chissà quale impero siriano retto sulla conquista, come le specie animali – anatre, tacchini, pulcini, gatti, galli, cani, capre, vitelli – che vivono contemporaneamente e indifferentemente la loro vita sull’aia, come tutte queste razze caprine, bovine, pollame il cui solo punto geometrico comune siamo noi uomini, noi, così diversi da loro, ridotti ad interiezioni ed onomatopee per poter entrare in rapporto con loro, noi che ci troviamo su cerchi che non si intersecano mai”.

Molti altri brani del Diario della Felicità sono densi di una tale ricchezza narrativa. Non si può sfuggire all’impressione che le pagine più vive siano figlie di un sommovimento interiore, originato dall’esperienza che più di ogni altra – come sostenuto da Proust – è in grado di muovere le forze dello spirito: il dolore. E tuttavia, per spiegare il fenomeno Steinhardt sentiamo che manca ancora qualcosa. Isabel Allende ha affermato più volte che non sarebbe stata una grande scrittrice se non avesse provato l’esperienza dell’esilio. È un’affermazione che molti grandi scrittori del Novecento potrebbero sottoscrivere (Joyce, Nabokov, Conrad, Vargas Llosa, Paz, Fuentes, ecc.), e che appare valida anche per Steinhardt. Ma l’esilio di Steinhardt non si è compiuto nei Paesi moderni, avanzati, dinamici che hanno conosciuto gli scrittori sopra menzionati. La terra d’esilio in cui maturerà la forza straripante e drammatica delle pagine di Steinhardt sono le prigioni in cui fu gettato per i quattro duri anni della detenzione, luoghi tetri e pieni di sofferenze, ma anche di umanità, di scoperte e gioie quotidiane, di lingue, storie, gesti caritatevoli, l’esilio che vive con i giovani presenti nella cella 34, “molto più resistenti moralmente, perché fisicamente sono quasi tutti tubercolotici”, l’esilio che diventa la gioia di chi è in grado di recitare poesie, la solidarietà che nasce da un “amalgama di coraggio, amore per il paradosso, caparbietà, santa pazzia e desiderio di trascendere ad ogni prezzo la miserevole condizione umana”.

Ecco la prova del fare che darà origine al suo capolavoro: “Nella cella 34, la gioia – nata dalla nobiltà , dalla poesia e dalla sfida – e il dolore (regna un freddo tremendo, il cibo è molto scarso, l’acqua continua ad essere piena di vermi, l’ambiente è deprimente come in un film dell’orrore, i rimproveri sono continui, ogni appunto delle guardie è accompagnato da botte sotto il mento e pugni in testa) si mescolano così inestricabilmente che tutto, perfino il dolore, si trasforma in felicità estatica e sublime”.

L’esilio di Steinhardt è la convivenza sofferta e coraggiosa, gomito a gomito, con persone di ogni età e di ogni ceto sociale, l’umanità che incontra nelle condizioni in cui si è costretti ad essere se stessi, a rivelare la propria natura, a mostrare il proprio valore. Così Steinhardt diventa scrittore, per la maestria e la sensibilità con cui rappresenta una geografia simbolica e al contempo realistica della condizione umana nell’universo più angusto che un uomo possa sperimentare dal punto di vista spaziale. Trasformando la sofferenza in quiete dell’anima, la sventura in conquista di gioie sconosciute, vede la bellezza e lo spirito dove prima i suoi occhi si fermavano vuoti, vibra di un’inesauribile catena di rapporti, che iniziano dalla riconsiderazione delle proprie radici. La selvaggia bellezza della Romania, l’anelito verso la vita semplice, feconda, affettuosa che vi scorreva negli anni della formazione umana e culturale di Steinhardt, il grande senso di ospitalità del suo popolo, il ricordo delle figure che hanno fatto la sua storia, tutto questo materiale contribuisce a creare quello che Steinhardt chiama il “fenomeno rumeno”.

Ovunque, nel Diario, troviamo testimonianze dell’amore per quell’animo romeno “tanto logorato dalla storia e dagli eventi, ma non inacidito”, “incapace di rallegrarsi da solo, impaziente di dividere con l’altro ogni fortuna”, che non ha “interrotto il contatto con la pace divina e con l’allegria della vita”. Steinhardt riconosce nell’animo del popolo romeno “un sostrato cristiano inconfutabile, una capacità di trasfigurazione che gli permette di trasformare l’intero universo e penetrare nel cosmo liturgico”. Così, per l’ebreo Steinhardt, non è la scoperta, è la ricomposizione di un universo spirituale già presente nel suo animo a suggerire brani come quello in cui descrive il battesimo ortodosso:

Oggi pomeriggio Floriana è stata la madrina al battesimo di sua nipote. Ha officiato Padre Sofian. La grandiosità sobria del cortile del monastero Antim, l’intimità della cappella (dove è stato celebrato il battesimo), la straordinaria tranquillità della battezza Dominica, la barba bianca, la voce serena, i gesti lentissimi e ieratici del Padre superiore, ma soprattutto il comportamento di Floriana hanno trasformato un banale battesimo in una lunga, prolungata quasi intenzionalmente misteriosa e sconvolgente cerimonia, le hanno donato il vero significato, così fantastico: l’immersione in un catino pieno d’acqua (simbolo della tomba) ed il segno della croce trasformano un misero essere biologico in una digenis, una figlia del Patto, un essere libero, nobile, vivo. Floriana si inchina, crede in un solo Dio, aspetta la resurrezione dei morti, rinuncia a Satana, pronuncia le formule con tanta serietà, convinzione, con una voce tanto sicura e calda, con sguardi tanto trasparenti e rivolti solo verso terre prive di sospiri, dolore e tristezza, con un viso talmente illuminato da assurde speranze che la cappella – dove, in un angolo, borbotta una stufetta, dove c’è poca gente e tutto è misterioso, intimo, iniziatico e protetto – porta con l’immaginazione ad Optino e al Monte Athos e la chiesa sembra essere il salone di Camelot il giorno in cui apparve il Graal.
È un brano che evidenzia perfettamente la capacità di Steinhardt di transitare da una realtà esteriore a una interiore, anzi intima, tramite una prosa semplice ed efficacissima, che non mira a piegare la realtà ad una visione preconcetta, ma ad illuminare la realtà stessa. Ogni parola di Steinhardt ha in sé la sua luce, perché è parola di fede. E così, tutto il Diario della felicità non è (e non appare mai) un qualcosa di costruito, ma si configura piuttosto come un sistema solare dove la fede ortodossa è l’astro attorno al quale orbitano accadimenti comuni e tragedie, persone normali e intellettuali di rango, riflessioni sul quotidiano e intuizioni teologiche, materiale umano che viene illuminato, e poi riscaldato, a mano a mano che la luce si fa più forte e chiara.

È la luce della nuova nascita nello spirito che conduce Steinhardt ad essere un vero cristiano ortodosso, a mitigare certi giudizi, a dichiarare che “ciascuno ha un pochetto di ragione”, che “tutti godono del buio e della luce”, che “l’amore per il nostro prossimo è il nostro vero dovere”, che “la reale veritas si chiama caritas”.

Un’altra splendida prova narrativa è riflessa nella pagina del Diario in cui Steinhardt, con la tranquilla e generosa energia che esprime quando delinea i tratti umani delle persone che ha conosciuto, ricorda la straordinaria figura di Alice Trailescu, moglie di Ionel Trailescu, addetto militare rumeno a Parigi. Parigina di origine bretone, bellissima, così Alice è immortalata nelle pagine del Jurnalul:

La zia Alice era qualcosa di raro: una bretone non credente. Non poteva soffrire i preti e diceva di aver paura quando vedeva le “sottane nere”. Ma in lei la gentilezza e la finezza agivano – sarebbe meglio dire ribollivano – ad un livello di intensità tanto elevato che attraversava la vita avvolta da una nube di fascino, dolcezza, bontà, grazia e altruismo, come accade solo ad alcuni grandi santi e a certi eremiti. Era dotata da Dio, in cui non credeva nel modo convenzionale, ma a cui si avvicinava per strade certo a noi sconosciute, anche del dono di far miracoli. Col suo sorriso che scioglieva ogni freddezza, ogni rancore, ogni scatto di cattiveria e di accanimento, sapeva far scomparire l’inimicizia, lenire i dolori, risvegliare speranze. Era sempre pronta, ad ogni ora del giorno e della notte, con la pioggia, col vento, con la tormenta o nel pieno della calura, a saltar giù dal letto, uscire di casa, correre in capo al mondo per andare a dare una mano, per togliere qualcuno dai guai o dagli impicci, o, semplicemente, per fare un piacere, in breve, per essere d’aiuto. Al momento del bisogno, non esitava a dire una bugia, anzi molte, a elemosinare, ad insistere, ad entrare dalla finestra dopo essere stata invitata a uscire dalla porta, ad umiliarsi (secondo il metro dell’uomo comune, perché in lei era inesistente la parola “umiliazione” per il bene altrui, come anche la parola “stanchezza”), di prendere su di sé colpe altrui se da ciò dipendeva la tranquillità di colui che era ricorso a lei.
Questo brano è di una bellezza rara, degno di stare alla pari con i ritratti che ci hanno lasciato il grande memorialista francese Louis de Saint Simon nei Mémoires e Charles Dickens nei suoi romanzi, degno delle descrizioni dell’animo umano che troviamo nelle opere di Molière e di La Bruyère.

Steinhardt rivela anzitutto la sua onestà intellettuale nell’elogiare la “mangiapreti” Alice. Poi, in poche righe, la descrive nei suoi tratti umani essenziali, illuminandone la vita sin nel profondo; ciò che risalta, con brillante e ammirevole evidenza, sono le doti filantropiche di questa donna, così spiccate che viene spontaneo metterla alla pari di certi santi o certi eremiti. È un brano tenero e forte, in cui si percepisce la commozione dell’autore, le lacrime che gli salgono agli occhi nella descrizione. Non c’è esagerazione nelle parole di Steinhardt, solo ammirazione, affetto, identificazione; c’è la comprensione che, a prescindere dall’adesione a una religione rivelata, esistono persone elette, dove lo Spirito si è insediato senza annunciarsi, e dove perciò la bellezza esteriore si unisce alla spiritualità interiore in tutta naturalezza, senza mediazioni, senza segni di croce o professione di fede.

Alice è atea, Steinhardt è un sincero credente; ma gli spiriti sono solidali fra loro. Forte della sua fede, Steinhardt contempla il mondo, e le creature che lo popolano, con lo sguardo sovrano e fulminante, e la calda simpatia, di un’anima che ovunque, persino in un lugubre carcere, rimane affollata di sentimenti, gioie, emozioni; un’anima sollevata dalle contingenze terrene, libera dallo spazio e dal tempo.
Il Jurnalul è il grande lascito di quest’anima, un’opera dove – come recita il suo titolo – si dispiega pagina dopo pagina un’immensa felicità.


Nicolae Steinhardt, Diario della felicità, a cura di Gheorghe Caragerani, traduzione di Gabriella Bertini Carageani, Il Mulino 1996, pagg. 535 (libro fuori catalogo).


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