FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 36
ottobre/dicembre 2014

Mare

 

IL MARE FRA LE TERRE

di Armando Santarelli



Cordiale, schietto, allegro come la gente della sua terra, il Cilento: era facile prendere in simpatia Giuseppe, giovane carabiniere assegnato alla stazione del mio paese, Gerano. Lo incontravo in piazza, nelle ore libere dal servizio, ma anche quando era di pattuglia gli capitava di abbassare il mitra e farmi un cenno, in modo che potessimo scambiare due parole. E sempre fiorivano battute spiritose, sfottò, ironie sul suo “lavoraccio” e sulla mia “pacchia”, sui suoi pantaloni con la striscia rossa e i miei bermuda con righe da carcerato.
E tuttavia, una nota di tristezza affiorava spesso sul suo volto scarno ravvivato da due gote sempre arrossate: capivo che si faceva sentire fortissima la nostalgia per il suo paese natale, Ascea Marina. A volte la manifestava all’improvviso, anche quando non stavamo parlando di affetti o delle cose che ci sono care; così, una sera gli dissi che lo comprendevo, ma che quel continuo riferirsi al suo paese mi sembrava un po’ ingeneroso nei confronti del mio, che lo aveva accolto con grande ospitalità e cordialità.

Giuseppe mi fissò, e si fece serissimo: “Armando”, replicò, “io sto bene qui, Gerano è un bel paese, mi trattate benissimo, non mi lamento di niente. Ma innanzitutto io ad Ascea ho la famiglia…”
Abbassò la testa, poi la rialzò, e un immenso sorriso si dipinse sul suo volto: “E poi, quando io apro la finestra di casa mia, davanti a me ho il mare…”
Pronunciò quella parola, “mare”, come un’invocazione, una preghiera, un principio di salvezza, una ragione di vivere. E io rimasi pietrificato, conquistato, certamente più consapevole delle ragioni da cui nasceva la sua terribile nostalgia.



Il mare… che tutti amiamo, perché è impossibile resistere al richiamo ancestrale dell’elemento più presente nel Pianeta che abitiamo. I tre quarti del globo sono occupati dalle acque; veniamo dall’acqua, dal brodo primordiale nel quale si sono sviluppate le prime, vitali molecole; è l’acqua la principale componente del nostro corpo; senza mangiare possiamo campare per settimane, senza bere moriamo in pochi giorni; siamo cresciuti nell’acqua amniotica di nostra madre, e qualsiasi contatto con le cose liquide ci procura benessere e piacere.
Il mare… la dolcezza del mormorìo delle onde, la melodia dell’infrangersi della risacca sulla battigia, la sferzata di immediata e misteriosa vitalità che ci procura il profumo della salsedine. Il mare… uguale dappertutto, diverso dappertutto, con la sua forza placida e devastante, la sua bellezza, le mille colorazioni delle sue acque: le trasparenze della Sardegna, il profondo blu di Santorini, il verde limpidissimo delle Isole Phi Phi, il turchese luminescente e perfetto delle lagune della Polinesia.
Il mare… le sue coste multiformi e multietniche, le spiagge di talco bianco e quelle scure vomitate dalle viscere della terra, le falesie rocciose e precipiti dove si frantumano le acque spumeggianti, le calette nascoste da una natura gelosa della sua stessa bellezza, i golfi dalle braccia sabbiose aperte e accoglienti, i promontori come dita lunghe e carezzevoli o come denti affilati, le isole in cui trasferiamo il perenne desiderio di solitudine e di pace interiore.

Il mare, che Charles Baudelaire ha celebrato così:

Sempre il mare, uomo libero, amerai!
Perché il mare è il tuo specchio; tu contempli
nell’infinito svolgersi dell’onda
l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito
non meno amaro.

I Greci usavano più termini parlando del mare: thalassa era il mare inteso come elemento liquido, pelagos come immagine, pontos come esperienza e viaggio, laitma le profondità marine anelate dai poeti e dai suicidi.
Eppure, i Greci conoscevano un solo mare, quello che noi, loro indegni eredi, possiamo legittimamente denominare il mare, perché un solo mare, al mondo, ha visto crescere intorno a sé tutto ciò che di grande l’uomo può esperire: è il Mediterraneo.

Lo scrittore e accademico croato Predrag Matvejevic, nel suo splendido Breviario Mediterraneo: «Lungo le coste di questo mare passava la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli olii e dei profumi, dell’ambra e degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza, dell’arte e della scienza. Gli empori ellenici erano a un tempo mercati e ambasciate. Lungo le strade romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dal territorio asiatico sono giunti i profeti e le religioni. Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa».
Gli Egizi, i Fenici, i Greci, i Cartaginesi e i Romani, Atene ed Alessandria d’Egitto, Costantinopoli e Venezia, l’invenzione della scrittura, della democrazia, della filosofia, dell’architettura templare e statuaria, il peregrinare di popoli migranti e l’avvento di mille civiltà, la nascita della storia, dei miti e delle religioni monoteiste, i traffici di oggetti preziosi, di spezie rare e di magnifiche opere d’arte, la coltivazione di piante antiche come il Vecchio Testamento.

Il vino: la bevanda più diffusa e amata, aristocratica e democratica, fonte di piacere e di perdizione, di riti bacchici e mondani ma anche lirici e religiosi, strumento eterno dell’abbandono dei sensi, ma anche simbolo del sangue di Cristo; questa bevanda che ha conquistato il mondo è nata sulle sponde del Mediterraneo. E che cosa c’è di più utile e sacro dell’ulivo? C’era un ramoscello di ulivo nel becco della colomba che portò il messaggio della fine del Diluvio Universale. C’erano degli ulivi nell’orto del Getsemani, e c’era un ulivo sulla vetta del Monte Sinai. Dagli ulivi mediterranei nasce il condimento più antico della storia, l’olio. È con l’olio che accendevamo i lumi delle chiese e delle cappelle, delle icone e delle cripte sotterranee, dei fari e delle tombe; ed è l’olio che cospargiamo sui corpi dei nostri cari nell’atto dell’unzione che segna la fine della vita.

Mediterraneo: il Mare Nostrum dei Romani, il Mare fra le terre che ci ha restituito opere d’arte come i bronzi di Riace e tanti altri prodotti del genio umano, e che il pioniere dell’archeologia subacquea George Fletcher Bass ha definito “il più grande museo del mondo”. A nessun oceano, a nessun mare sono state dedicate più opere poetiche e narrative: Omero, Apollonio Rodio, Virgilio, Dante, Foscolo, Verga, Svevo, Kavafis, D’Annunzio, Saba, Ungaretti, Andrich, Montale, Seferis, Ritsos, Camus, D’Arrigo, Sanguineti, La Capria e innumerevoli altri. Ma per il giornalista e scrittore inglese Patrick Leigh Fermor l’attrazione per il Mediterraneo è qualcosa di più che una fascinazione intellettuale, perché porta con sé qualcosa di biologico, di sensuale, di emotivo. Nell’iconografia antica, l’Eden è un luogo incontaminato, fertile e selvaggio allo stesso tempo, con dei confini ben delimitati. Il bacino del Mediterraneo soddisfa pienamente questi requisiti; quasi un lago, ricco di specie vegetali, è luogo utopico e nostalgico, ma pregno di una vita primigenia e feconda.

È davvero una beffa della storia, un crudele contrappasso, una Nemesi impossibile da comprendere che questo luogo bellissimo e umano, carico di storia e di civiltà, questa culla delle culture più antiche del Pianeta, sia diventato oggi un inferno, la tomba di decine di migliaia di esseri umani in fuga da calamità come i conflitti, la fame, la povertà, la persecuzione politica e religiosa.
«Conosco un Mediterraneo ricco e poco popolato al Nord, e un altro al Sud, povero e sovrappopolato, che si sorvegliano a vicenda e si guardano con sospetto; un Mediterraneo divenuto fanatico, sinonimo di un razzismo ostentato ormai senza vergogna». Così scrive con amarezza il grande poeta e saggista Tahar Ben Jelloun.
Razzisti noi? Sì, purtroppo. E con chi, poi? Contro esseri umani inermi e disperati, povere creature che lasciano i propri villaggi, le proprie case, gli affetti più cari; sanno di rischiare la vita nell’estremo tentativo di rifarsene un’altra, di vivere in modo normale; è semplicemente ciò che farebbe la maggior parte di noi nella loro stessa condizione.



So qualcosa delle vicende e dei problemi di questi sfortunati; infatti, nel mio paese esiste un centro di accoglienza SPRAR per richiedenti asilo e rifugiati, in cui sono ospitati, attualmente, nigeriani, ghanesi, eritrei, cingalesi, siriani, albanesi e senegalesi. Frequentandolo, ho raccolto le testimonianze di privazioni e sofferenze di ogni tipo; sulle più drammatiche preferisco tacere. La storia di Glory, però, ve la voglio raccontare. Quando, un paio di anni or sono, arrivò il primo gruppo di rifugiati, notammo subito una bambina che parlava da sola, gesticolando in modo abnorme e mimando ogni tanto pose aggressive e minacciose. Pensavamo tutti che parlasse con un amico immaginario, che inventasse delle storie con qualche personaggio della sua fantasia. Ma un giorno la responsabile del centro ci fornì un’altra spiegazione: Glory non faceva altro che imitare i discorsi e i gesti del padre, perché la sua famiglia, perseguitata per motivi religiosi, era stata costretta a nascondersi in uno scantinato per ben due anni; la bambina, di conseguenza, non conosceva altre parole e altri gesti se non quelli di frustrazione e di rabbia dei suoi genitori.

A parte qualche eccezione, sono queste le persone che cercano rifugio da noi. Sappiamo da che cosa fuggono e a quale prezzo, sappiamo che viaggiano e arrivano (se arrivano) in condizioni disumane, abbiamo visto centinaia di volte i loro visi stravolti dal dolore. Allora perché non solidarizziamo con loro, perché li trattiamo con freddezza, diffidenza, o addirittura con ostilità e odio?
La risposta è semplice, e si chiama eterofobia. Questi sentimenti non sono disumani, anzi, sono vecchi quanto l’uomo, che da sempre diffida degli individui che non fanno parte della propria cerchia, della propria etnia. Nelle comunità primitive l’uomo era buono, socievole e accogliente in seno alla propria tribù, ma diffidente e ostile nei confronti di coloro che non ne facevano parte, e che spesso si ponevano come competitori nella lotta per l’esistenza.

L’eterofobia, impulso utile ai nostri antenati, è ancora radicata nella nostra psiche; a noi chiederci come vogliamo rispondere a quella che il filosofo Fernando Savater chiama una malattia morale, a meccanismi che avevano la loro ragione di esistere nelle società primitive, ma che l’evoluzione e il progresso civile e democratico stanno tagliando fuori dalla storia umana. Ovunque nel Pianeta che abitiamo, nelle immense metropoli ma anche nelle città di provincia e oggigiorno persino nei villaggi più piccoli, troviamo un misto di popoli, di culture, di nazionalità, di lingue. Viviamo connessi col mondo ma pretendiamo di ragionare ancora da trogloditi, ignorando, o fingendo di ignorare, che le civiltà si sono formate nello scambio, nella trasmissione di tecniche, di idee, di usi, di lingue, di cultura; è proprio quel che è avvenuto nel Mare fra le terre, nel Mediterraneo. E tutte le razze umane, tutti noi siamo il risultato degli infiniti incroci sopravvenuti al monogenismo primordiale della specie homo sapiens.

Ciò che più stupisce, anzi ferisce, è che ad esercitare critiche nei confronti di un’immigrazione che non può non essere in parte incontrollata, siano persone che si professano religiose, persone che dicono di servire Dio. Ma servire Dio e servire l’uomo è la stessa cosa; servire Dio è soccorrere il povero e lo straniero, l’orfano e la vedova, come Cristo ha insegnato.
La questione della necessaria, doverosa accoglienza di chi solca i nostri mari in cerca di pace, di lavoro, di una vita possibile, mi sembra così evidente da non meritare altre considerazioni; non siamo piante radicate in un posto e circondate da altre della stessa specie, siamo esseri pensanti dotati di coscienza, che ci suggerisce di applicare una regola semplicissima e fondamentale, criterio universale per risolvere ab initio ogni dubbio di carattere morale riguardo a chi ci chiede di accoglierlo e di aiutarlo: riconoscere la nostra umanità in quella dell’altro.


armando.santarelli@inwind.it