FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 35
luglio/settembre 2014

Soste & Percorsi

 

UNA VITA ESAUSTA

di Armando Santarelli



La prima sosta l’ho fatta quando avevo solo quattro mesi. È stata una sosta inconsapevole, e che poteva segnare la fine del mio percorso terreno: ernia in peritonite, operazione assolutamente necessaria, con il primario di chirurgia dell’ospedale di Tivoli che dice a mia madre: “Signora, devo essere sincero: se non lo operiamo, il bambino muore; se lo operiamo, rischia di rimanere sotto i ferri”.
Sono ancora qui, a 58 anni da quel giorno; e come tutti i poveri e presuntuosi mortali, ho pensato diverse volte che, se di là non mi hanno voluto, ebbene, forse avevo qualcosa da dire nell’aldiquà.

Sapere che potevi stare sottoterra a pochi mesi dalla nascita dovrebbe aiutarti a vivere; insomma, si dovrebbe diventare più leggeri, disincantati, fatalisti, persino un po’ più cinici. Sono già sfuggito alla morte una volta – dovresti ripeterti ogni tanto – perciò bando alle angosce esistenziali, alla noia metafisica, alle ansie ipocondriache, e via con le botte di vita, le esperienze di ogni tipo, le passioni del cuore. Purtroppo, sono percorsi che non sono mai riuscito a imboccare; qualche volta ci ho provato, ma sono stati voli pindarici, esauriti i quali sono stato sbalzato di nuovo sulla strada accidentata e incerta che chiamiamo vita.
Ma una cosa me l’ha lasciata, la prospettiva di poter morire senza aver neppure realizzato di esistere: l’impossibilità di smettere di pensare, di interrogarmi sul senso della vita come sul significato delle cose più banali che facciamo ogni giorno. Col risultato che ho abbracciato sin da piccolo, e poi sposato, l’inquietudine, l’insicurezza, le fobie più strane e incomprensibili.

Da bambino, mi capitava ogni tanto di non riuscire assolutamente a prendere sonno, perché sentivo che una forza misteriosa e tormentosa mi opprimeva il petto, impedendomi quasi di respirare e facendomi credere che sarei morto, che non sarei mai diventato un uomo adulto. Mi alzavo, bussavo alla porta della camera da letto dei miei genitori: “Mamma, non riesco a dormire”. Indicavo il cuore: “Mi fa male qui”.
Così dicevo, e una madre preoccupata e sbalordita riceveva quelle parole sconcertanti, incomprensibili a lei più di quanto non fosse per me la causa che le provocava.
“Vieni un po’ nel lettone, dai. Amore di mamma, che cosa c’è che non va? Devi dirci qualcosa che ti vergogni di dire? T’ha fatto male qualcuno?”.
“No mamma, nessuno, te lo giuro”.

Quella precoce inquietudine è durata nel tempo; l’ho interrogata molte volte, cercando di leggervi una ragione, una causa: forse la severa educazione impostami dai genitori, i divieti e i controlli cui ero continuamente soggetto, il timore di non poter corrispondere alle loro aspettative, forse la morale e la mentalità piccolo borghese del paese in cui sono nato e vissuto, forse il retaggio di quella patologia infantile che poteva segnare la fine della mia vita…
O forse niente di tutto questo, perché spesso mi viene da pensare che alcuni individui abbiano un’autentica vocazione per l’inquietudine, l’insicurezza, le paure recondite e inspiegabili. Non devono attendere che questi sentimenti arrivino con l’età, con le difficoltà della vita, perché sono loro connaturati, originari, nel senso che nascono con loro. È il passato doloroso che glielo suggerisce, l’inesorabile presente a confermarlo, l’impossibilità di sperare a disingannarli per il futuro. Se fai parte di questa categoria di persone ti convinci, una volta per tutte, che non sono gli eventi a provocare ansie e turbamenti, è ciò che preesisteva al nostro agire cosciente a permeare tutto, a contaminare noi, e poi le persone, gli oggetti, il mondo che ci circonda.

Perché certi bambini sorridevano assistendo alla morte di un gattino, all’orribile fine di un maiale, al taglio di un albero secolare che cadeva gemendo come un vecchio presago della morte imminente? Quei bambini sono i miei compaesani e amici di oggi; neanche loro sono cambiati, sono rimaste le persone semplici, pragmatiche, adatte alla vita di quando eravamo ragazzi; sono le persone che, rivedendomi in piazza dopo essere uscito per la seconda volta da una clinica psichiatrica, mi abbracciarono con affetto, poi pronunciarono quelle parole: “Ehi, adesso basta. Ti stai facendo vecchio, possibile che ancora c’iai le streghe?”
“Le streghe”: come chiamare diversamente una depressione inspiegabile ai loro occhi – ero la classica persona cui non manca niente – misteriosa persino per chi mi amava e sapeva tutto di me?

Fu una lunga sosta quella, fu la privazione di ogni sentimento, di ogni emozione, di ogni gioia: vegetavo, stordito dai farmaci e dall’elettroshock, unico rimedio a un malessere che resisteva ad ogni altra cura.
Ho ricominciato a camminare ogni volta, dopo quelle soste dolorose; ma con passi incerti, perché da allora un’ombra – il ricordo delle sofferenze patite – cammina sempre accanto a me, e so che un giorno, mio malgrado, potrà allargarsi, oscurare di nuovo la mia esistenza, piegarmi sotto un peso difficile da portare, quello della mia stessa anima.
Eppure, so bene che le streghe che ho incontrato lungo il percorso della mia vita non erano così malvage; la loro mela era guasta, ma non avvelenata. Per tutto il periodo della lunga sosta, non ho più avuto un’identità, ma so che essa non era stata distrutta. Perché c’è di peggio: è quando il peso dell’anima diventa insopportabile, è quando ci si convince di dover recidere anche l’ultimo legame, quello che ci lega a noi stessi.

Mi fanno ridere quelli che dicono che suicidarsi è un atto di coraggio. No, non è il coraggio ad armare la tua stessa mano quando senti che il mondo non ti appartiene più, quando realizzi che alla tua angoscia non c’è né consolazione né soluzione.
È ciò che deve aver pensato un ragazzo del mio paese, Fabrizio. Si è impiccato ad una trave della casetta di campagna di suo nonno; lo ha trovato la madre, preoccupata che alle cinque del mattino il figlio non fosse ancora rientrato a casa.
“Un paese”, ha scritto Cesare Pavese, “vuol dire non essere soli, sapere che nelle persone e nelle cose c’è qualcosa di tuo”. Tutti noi di Gerano, a distanza di più di due mesi dal suicidio di Fabrizio, siamo ancora in lutto. In lutto dentro, voglio dire: addolorati, ancora increduli, preda dei sensi di colpa, incapaci di capire.

Chi era Fabrizio? Un uomo bellissimo; aveva trent’anni, ma sembrava ancora un ragazzino; di carattere era buono, mite, un po’ riservato, e tuttavia ben inserito nella vita sociale del paese. Aveva una ragazza, si erano lasciati da poco, ma non sembrava averne sofferto più di tanto. Lavorava a sprazzi, faceva il rappresentante di commercio, cercando nel frattempo, come tutti, un posto fisso.
I suoi genitori? Persone stupende, laboriose, oneste, piene di amore per i figli. La sorella? Attaccata al fratello e ai genitori, dedita al volontariato, creatura di una chiarezza d’animo esemplare.
Che cosa mancava a Fabrizio? Nulla, anzi, una qualità inattingibile e misteriosa: il gene della vita. Da un po’ di tempo, nonostante i farmaci e il sostegno di uno psicologo, era diventato più chiuso, più introverso; era dimagrito, sfiorava l’anoressia, anche se, quando con molta cautela glielo facevamo notare, minimizzava sempre, diceva che un anoressico non riesce a correre – come faceva lui – per quaranta minuti al giorno.

L’ultimo della sua vita – era una domenica – lo ha trascorso in piazza al mattino, in famiglia nel pomeriggio; era di nuovo con gli amici in serata, e dopo cena. Alle prime ore del nuovo giorno è arrivato con la macchina nella casetta rurale di suo nonno e ha acceso il fuoco nel caminetto. Ha fumato due sigarette. Forse ha riflettuto sulla sua condizione, o forse no, perché non c’era niente su cui riflettere. Verso le quattro del mattino è salito su un blocchetto di tufo, poi ha passato la sciarpa di cotone su una delle travi del soffitto, e se l’è annodata al collo. Ha fatto uno scarto laterale; i piedi, dicono i testimoni, penzolavano a non più di quattro, cinque centimetri dal pavimento.
Fabrizio ha sostato per l’ultima volta; aveva seguito il suo percorso esistenziale gravato da un fardello, che ora ha deposto per sempre. Forse ha dato un ultimo sguardo dinanzi a sé; il percorso era quello, sempre uguale, fatto di passato o di presente, e non di futuro. Cercava un punto fermo che non ha trovato, né in se stesso né in un mondo dove di sicuro c’è solo l’eterno e implacabile fluire del tempo.
“Un punto fermo”, ha scritto Etty Hillesum, “esiste solo nella morte”.

Ora il suo corpo è libero, la sua anima, forse, ancor di più. Ha detto basta a una vita che non amava, ha utilizzato l’unico mezzo concesso all’uomo per opporsi a delle scelte (la nascita, l’ambiente, l’educazione) in cui non aveva avuto nessuna parte. Ha ucciso ciò che era, e dunque ciò che detestava del suo essere, le ragioni per cui non riusciva ad amarsi, né ad amare questo mondo. Ha deciso – lui, solo lui – del proprio destino, irrevocabilmente, facendo sì che si compisse un altro destino, quello di chi sembra essere entrato in questa vita per caso, e che con un gesto semplice e definitivo, fulmineo ed eterno, si scioglie in un altro essere, un altro stato, vincendo il vecchio io, trionfando sul tempo, andando oltre la vita e contemporaneamente oltre la morte.


armando.santarelli@inwind.it