FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 34
aprile/giugno 2014

Lavoro

 

SGUARDO SULL’ESSENZA DELLE COSE
In una recente pubblicazione emerge la visione pittorica di
uno dei più interessanti artisti italiani, Placido Scandurra

di Marco Testi



Placido Scandurra è sicuramente uno dei più interessanti artisti d’oggi, sia per la scelta dei soggetti rappresentati, sia per le tecniche da lui usate, che vanno dall’acquerello all’olio, dalle tempere fino all’incisione. Un pregevole volumetto delle edizioni Guerra, curato dal critico e teorico dell’arte Eugenio Giannì (Placido Scandurra, Acquerelli, 2014, 142 pagine, 10 euro) affronta oggi l’affascinante mondo della pittura ad acqua di Scandurra, il che vuol dire inoltrarsi in un universo complesso e legato a motivi culturali assai profondi, oltre che all’esperienza del vissuto dell’artista siciliano, che oggi vive non lontano da Roma.

Il fascino di questo mondo sta, come dicevamo all’inizio, anche nella scelta dell’oggetto della sua poetica figurativa. Giannì, dopo una esauriente carrellata biografica (ma altri riferimenti sono presenti nell’antologia critica che raccoglie i più importanti interventi sul pittore, dagli anni settanta ad oggi), presenta una cospicua iconografia, partendo dalle prime esperienze con la tecnica della pittura ad acqua e seguendo la ripartizione presente nel saggio introduttivo: il soggiorno siriano al seguito della missione archeologica guidata da Paolo Matthiae in qualità di restauratore nei primi Settanta, il ciclo dedicato alla vita di clinica ai tempi del ricovero alla Salus di Roma (1971), il soggiorno irlandese, sempre di questo periodo, ritratti e animali, che attraversano varie epoche, gli Archetipi, che iniziano a metà degli anni settanta, il gruppo delle “Pastorali”, tra fine settanta e primi ottanta, e il ciclo dei Bagnanti, a partire dagli anni ottanta.

Come molti hanno notato, all’interno di questa tecnica, rimane ancora oggi, a distanza di più di quarant’anni, come un unicum il ciclo dedicato alla vita in clinica. Nata dal dolore, dalla separazione, dall’emarginazione in cui precipitavano la difficoltà del vivere, l’esaurimento dell’energia necessaria per affrontare la realtà, questa fase della pittura di Scandurra apre scenari nuovi nella pittura italiana. L’universo concentrazionario di una clinica per malattie nervose, l’incubo della fine dei sogni e dell’inizio di un tunnel fatto di corridoi e attese, mentre di fuori la vita pulsa e conserva altri sogni e altri colori, l’attesa rassegnata delle visite dei “sani” riescono a trovare un senso grazie alla capacità dell’artista di entrare dentro quella dimensione. Laura Russo ha parlato, a proposito di questo ciclo, di “modi assimilabili, almeno in parte”, all’opera di Fausto Pirandello, il che è corretto se si guarda alla comune esperienza, oltre che di sicilianità, di frequentazione di cliniche per malattie mentali, per Pirandello motivata dalla salute psichica della mamma. In questi acquerelli non c’è solo una partecipazione emotiva, ma anche un inedito sguardo che proviene anche dalla capacità di guardare dal di fuori quella medesima realtà.

Non uno sdoppiamento, come la logica ci porterebbe a pensare, ma il raro dono (acuito dalla sensibilità religiosa e dall’attenzione verso il pensiero orientale di Scandurra) della distanza e di quello che Brecht chiamava straniamento. Ma Brecht aveva a che fare con il teatro e aveva alle spalle un pensiero raziocinante, mentre Scandurra si confronta con una singola immagine, che o si carica di vita propria nei limiti concessi dallo statuto pittorico o fallisce il suo scopo. Il pittore siciliano riesce ad oggettivizzare la realtà prescelta uscendo per così dire da essa, guardandola per un attimo dal di fuori senza per questo perdere la consapevolezza di farne parte.

L’autoritratto che inaugura nel libro la serie della Salus è il miglior paradigma di questa assai rara capacità di uscire dal sé anche là dove l’operazione sembrerebbe impossibile. Qui il semplice movimento degli occhi verso un punto laterale e leggermente innalzato rispetto a chi guarda, l’inarcarsi delle sopracciglia, le onde dei capelli, i caratteri della scrittura che formano una sorta di sfondo, laicissima aureola fatta di sofferenza e di abissale sprofondamento nelle radici elementari del senso, restituiscono la sensazione di essere di fronte ad un unicum pittorico, in cui precipitano ricordi della pittura siriana e copta, di quella romana ed ellenistica e della tradizione ritrattistica, oltre che quelli più vicini a lui della scuola romana. Precipitare vuol dire la formazione di una soluzione nuova, non il depositarsi di elementi che restano inerti. Tutti questi motivi si fondono in un nuovo equilibrio, un passo avanti nelle possibilità espressive del ritratto, anche per la presenza di un testo nello sfondo, che sostituisce la quinta canonica del panorama, della rovina, della natura morta o dello spazio chiuso.



Non nuova nella storia della pittura, questa commistione tra testo e immagine in Scandurra acquisisce inediti modi espressivi e costringe ad una profonda riflessione sull’arte del dolore, della solitudine e della zona di confine, quella sorta di limen sacro (il folle era sacro in talune civiltà, e alcuni santi sono chiamati folli di Dio) che assume in sé la sostanza profonda degli interrogativi sul senso dell’esistenza. Il testo è infatti il leitmotiv, non la spiegazione, non la giustificazione, di quello che si manifesta dal segno pittorico, formando con esso un tutt’uno.

Non testo e immagine separati, ma un continuum espressivo in cui l’uno si avvita sull’altro, arrivando assai vicino a motivi radicali dell’esistenza umana. Ad una prima lettura, quelle parole potrebbero sembrare un semplice “testamento” di chi è arrivato, ancor giovane, ad un punto di snodo difficile e per certi versi ingestibile con gli strumenti della razionalità e della cura occidentale.


Io Placido Scandurra amico dei fiori dei pesci delle farfalle, degli uccelli, dei cani dei gatti delle mosche e delle api degli uomini; vecchietti vecchiette, bambini bambine. Amico delle pere delle mele, delle fragole… delle piante e delle erbe io amico delle cose giuste io ancora amico tuo amore mio.

“L’essere umano, se vuole capire la vita deve almeno una volta essere folle”.

Placido Scandurra


Se l’autoritratto in questione sprigiona nei colori e in movimento dell’aria, dettato dal cromatismo, una sorta di laica aureola scaturita da un martirio tutto umano e spirituale, dal trovarsi come Daniele nella fossa dei leoni (interiori e per questo temibili quanto e più di quelli biblici) in perfetta solitudine, il testo presenta un conto assai salato alle modalità di concepire il fare pittorico da parte del colto contemporaneo. Rappresenta non il delirio momentaneo di un artista in crisi di identità, ma una dichiarazione di poetica, di ritorno agli elementi primordiali e ai sentimenti puri e semplici, lontani da ogni intellettualismo e da ogni letteratura. Quella che sembra una elencazione primitiva e infantile è l’estrema scelta di un uomo giunto al bivio: o l’intellettualizzazione del segno pittorico, la ricerca del consenso della casta, o la scelta della spontaneità e del coraggio di manifestare ciò “ch’ e’ (l’anima, ndr.) ditta dentro”. Raramente le radici ctonie, l’aggallare dell’untergrund si sono manifestati in modo così drammatico nella ritrattistica italiana contemporanea.

In genere, l’acquerello di Scandurra non è mai mimetico o realista: come accade quando si parla di arte, la ricerca pittorica tenta, in accordo con la sensibilità religiosa, lo svelamento di dimensioni altre che non quelle puramente fisiche e materiche.
Anche i quadri “irlandesi” rivelano un artista fuori da ogni canone oleografico e pittoresco: le carcasse di automobili non sono mica solo in Irlanda, eppure è lì che il tratto dell’artista le coglie, in un tentativo estremo, come ha ben notato Agostino Bagnato, di trovare il senso dell’abbandono, in una sorta di correlativo oggettivo eliotiano, che dall’oggetto inanimato giunga all’illuminazione interiore.

La possibilità simbolica della pittura è uno dei punti qualificanti dell’arte di Scandurra rappresentata in questo volume. La scuola romana non è passata indenne nella sua esperienza, è vero, così come la sua attività di restauratore in medio-oriente, e d’altronde è naturale che un artista diventi ciò che è grazie ad un determinato background culturale ed esperenziale, anche se, e taluni lo hanno fatto, bisognerebbe parlare di una endemica e profonda sicilianità del suo stile, a patto che questo non venga interpretato come provincialità.

Lo sguardo dell’artista è in grado di cogliere l’essenza delle cose, di andare al di là dell’apparenza e sondare gli archetipi ultimi che stanno alla base del senso esistenziale. Non è un caso che proprio Archetipi si chiami – per volontà dello stesso artista – una stagione creativa di Scandurra che tenta direttamente l’abolizione di quella che Pirandello chiamò “maschera” per giungere alla visione iniziatica dell’essenza.
Il lavoro di Giannì ha dunque il merito di aiutarci a conoscere meglio uno dei maestri contemporanei facendoci ripercorrere nel contempo un importante tratto della pittura italiana degli ultimi quarant’anni.




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