FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 34
aprile/giugno 2014

Lavoro

 

LE STRADE DEGLI ALTRI

di Patrizia Passarelli



Ogni mattina quando migliaia di persone salgono in macchina e vanno, io sono tra quelli. Pendolari. Con un moto più o meno regolare percorriamo un tragitto avanti e indietro, andata e ritorno. Il mio pendolo mi consente qualche variante: a differenza di altri, non attraverso la città da una parte all’altra ma ne esco e soprattutto, non iniziando a lavorare sempre alla stessa ora, posso scegliere da dove uscirne, secondo la convenienza e il traffico. Mentre io esco, centinaia di auto nel senso opposto si accalcano, spingono per entrare nel ventre materno di questa città, attraverso il cordone ombelicale della via Cristoforo Colombo e le acque del laghetto dell’Eur, un vero travaglio al contrario. Io, per fortuna, “mi partorisco” verso l’Agro Pontino. Sembra quello il percorso principale, quello che porta alla meta ma io lo so che quella è solo la parte più lunga, non la più importante, perché, come in tutti i viaggi, il tragitto che porta alla meta non è da trascurare.

SEVALIA

Quando ho fretta, scelgo di attraversare l’Eur; è una strada un po’ più lunga ma anche più scorrevole, immersa nel verde di giardini e alberi ad alto fusto che, soprattutto in primavera, hanno un bel colore verde, pieno di luce; una strada tonda, con meno semafori. “Meno”, non “senza”. Ai semafori a Roma succedono un sacco di cose per chi ha voglia di vederle. Dove passo io c’è Sevalia che pulisce i vetri. Sevalia è un Rom, vive al capo nomadi di Tor de’ Cenci. È un bel ragazzo, discreto, volenteroso, pulito. Sì, pulito perché anche se ci sembra una cosa da non dire, per noi l’integrazione passa anche attraverso la pulizia.
Le prime volte lava il vetro, è bene attento ai particolari e mi chiede una moneta. Poi, un po’ alla volta, quando vede la mia macchina, la riconosce, mi sorride e mi viene incontro solo per chiacchierare. E così mi parla di cose normalissime ma che mai avrei associato a lui: mi dice per esempio che soffre di mal di stomaco, a volte mi chiede se posso portargli una medicina di cui mi mostra la scatola perché non ha abbastanza soldi per comprarla. Ma non è mai insistente o scortese. Più avanti, quando inizierà a fare freddo lui starà li, col cappuccio della felpa tirato su e le mani rosse per l’acqua fredda che prende alla fontanella.
“Sevalia, li vuoi un paio di guanti? Te li porto?” “No, coi guanti è peggio, mi si spacca tutta la pelle” “Ma davvero! Ma ora al tuo paese non è più freddo? Dovresti essere abituato” gli dico “Eeehhh! Avolia se è fredo” mi risponde “C’è la neve alta così!” e sorride come per consolarsi.

MARIA

Oggi è sabato e molti il sabato non lavorano. Tante scuole sono chiuse e quindi, anche se inizio prima a lavorare, andare in macchina sembra più rilassante. Siamo di meno sulla strada e avere più spazio mi permette di allentare un po’ il controllo, di allargare lo spazio per la mente. Il sabato a volte passo per la Laurentina. Questo non è un percorso “tondo” come l’altro ma anzi più spigoloso, fatto di molti incroci e svolte ad angolo retto e perciò durante la settimana più trafficato, più lento. Per questo, per poterlo affrontare, mi sembra necessaria una disposizione d’animo più distesa inversamente proporzionale agli angoli che incontro e che attraverso. Così accendo la radio e presto mi sento avvolta da parole che si trasformano in pensieri e che si fanno racconti e da racconti che diventano pensieri. Farsi portare da una voce aiuta a smaterializzare le immagini e in questa narrazione che conquista, prende e disperde è come se uscendo dalla città uscissi anche da me stessa. Ma non dura molto. Uno degli “spigoli” di cui è fatta questa strada è là, e mi si pianta dentro con dolore. Si chiama Maria (lo saprò qualche giorno più tardi). Maria è giovane, col viso triste e scalza. Fa freddo, parecchio, e lei è scalza con addosso solo una cappotto cencioso. Non faccio in tempo a fermarmi perché il semaforo è verde ma lei mi si ferma nella mente e per un sacco di tempo non riesco a pensare ad altro. Quando torno indietro non c’è più e ancora non riesco a pensare ad altro. Chissà dov’è il pomeriggio, che fa o che le fanno fare e d’improvviso mi sembra che la miseria, se per tutti è una cosa orribile, per le donne è ancora più brutta, più umiliante. La penso senza riuscire a capire dov’è il confine tra il dolore e l’umiliazione, quale dei due è più difficile sopportare, se ci si può rassegnare alla propria miseria sopprimendo quelle necessità incancellabili come coprirsi o lavarsi. Il pensiero di quella donna mi “costringe” a quel percorso anche nei giorni successivi, in quei giorni in cui il mio essere un po’ metodica mi avrebbe portato su un’altra strada.

SEVALIA

Quando passo sulla Pontina per andare al lavoro, fiancheggio due campi nomadi. A volte vedo ragazzini che giocano vicino al bordo della strada senza pensare al pericolo che corrono e un brivido mi sale sulla schiena. Qualche giorno fa qualcuno ha tirato un sasso e si è rotto il parabrezza della macchina. Allora quando incontro Sevalia glielo dico. “Sevalia, guarda un po’ che è successo! Passando fuori dal vostro campo hanno tirato un sasso sul vetro. Ma non li guarda nessuno quei ragazzini? Prima o poi qualcuno vi manda i Carabinieri” La sua risposta mi lascia a bocca aperta. “Magari. Almeno forse un po’ si spaventano.” Gli dico pure che è pericoloso che giochino lì vicino alla strada e lui mi dice ”Io so chi sono, quando dico di non giocare lì mi dicono “Fatti cazzi tuoi”; tutti i giorni si fregano mia bicicletta e quando vado da padre a dire mi dice “Menali” – “Io li devo menare? Tu li devi guardare. Sono tuoi fili, io non posso menare loro!”
È giovane Sevalia ma saggio. Poi mi guarda come se si sentisse anche lui un po’ colpevole e mi dice: “Ma adesso non me la dai più una moneta?”

MARIA

Il lunedì successivo passo dove avevo visto Maria ma lei non c’è. La vedo quando ripasso al ritorno ma è dall’altro lato della strada e non posso fermarmi. Il martedì rifaccio lo stesso percorso. È un po’ più tardi ma questa volta c’è: è sempre scalza, fa sempre freddo anzi ha iniziato a piovere in quest’autunno che di pioggia ne farà tanta. Ha la mano tesa per chiedere l’elemosina ma ha lo sguardo basso mentre lo fa. Era vero, per le donne è più umiliante. Ha i capelli lunghi Maria e le manca un dente davanti. Abbasso il finestrino, le do una moneta, la prende con gli occhi bassi e se ne va. Ma poi la guarda e con lo sguardo torna indietro per ringraziarmi e mi accenna un sorriso.
“La gente che passa ci guarda e prosegue veloce, ci osserva e prosegue veloce, magari saluta ma sempre prosegue veloce.”
E come se quel sorriso le avesse dato coraggio fa un passo indietro, si avvicina e mi chiede una sigaretta. Non ce l’ho, non fumo e mai cosa tanto giusta mi è sembrata così stupida. Mi fa un cenno con la mano e se ne va, scalza, con lo sguardo di nuovo vuoto. Il suo sorriso mi aveva fatto sentire diversa, il suo sguardo vuoto di nuovo uguale a tutti gli altri.
Scatta il verde. Che diceva quella canzone un momento fa?
“La gente che passa ci guarda e prosegue veloce, ci osserva e prosegue veloce, magari saluta ma sempre prosegue veloce.”
È vero, è così, sono io e mi torna in mente il protagonista di “Caos calmo” che mentre aspetta la figlia fuori scuola sente le parole della canzone dei Radiohead e gli sembra che parlino di lui.
Al ritorno devo ripassare di là, mi sento attratta da quell’incrocio. E lei c’è, dallo stesso lato della strada che sto percorrendo. “Come ti chiami?” “Maria” “Da dove vieni” “Rumania” Scatta il verde. “Ciao” “Ciao”. Quanto dolore c’è in questo mondo.
Piove e davanti agli occhi vedo i suoi piedi scalzi e sento una specie di scarica elettrica. Quando arrivo a casa cerco delle calze pesanti e delle scarpe che posso regalarle. Le trovo, le lavo e le metto in macchina. Non appena la incontro almeno potrò dargliele.

Nei giorni successivi, percorrendo la Pontina, vidi più volte stazionare fuori dal campo Rom delle camionette dell’Esercito. Si stavano varando delle misure più restrittive per l’ingresso e la permanenza degli extra-comunitari in Italia e i Rom erano tra loro. Si parlava di schedare le impronte digitali dei bambini e forse per quello erano lì.

Chiesi a Sevalia ma mi disse che per il momento avevano solo controllato chi era “regolare” e chi no e che forse li avrebbero smistati in due campi diversi. Lui però restava lì perché sua moglie era incinta e stava per partorire. Sevalia ha gli occhi belli e quando dice qualcosa di cui è contento si illuminano. Quella volta successe proprio così.

SHAMIR

Quando il sabato passo per la Laurentina, in fondo, prima del grande tratto della Pontina, c’è un ultimo semaforo. È un semaforo che dura un po’più a lungo perché i flussi di traffico che si incrociano lì sono tanti e così si ha il tempo per comprare il giornale dagli ambulanti che li vendono. A volte riesco anche a leggere i titoli della prima pagina o la copertina dell’inserto allegato. Uno di quei sabati, appunto per comprare il giornale, faccio un cenno al ragazzo che stava qualche macchina più giù. Si avvicina ”Buongiorno” dice e poggia il giornale sul cruscotto dal finestrino abbassato. “Lei passa di qui solo sabato?” Lo guardo incredula e per un istante non riesco a rispondergli. Poi “Sì” dico “C’è meno traffico il sabato” ma senza pensare a quello che sto dicendo. Io non l’ho mai visto prima, lui era solo quello che mi vendeva il giornale anche se è l’unico che vende quel giornale a quel semaforo. Lui sta qui tutti i giorni, vede migliaia di macchine, vende centinaia di giornali e ha visto che io passo solo il sabato.
“La gente che passa ci guarda e prosegue veloce…”. Noi forse, loro no.
Quel ragazzo attraversava la mia mente mentre io attraversavo quella campagna che mi portava verso il luogo del mio lavoro. Perché si era ricordato di me? Nella nostra testa ci sono sempre così tante cose che ricordarle ci riesce difficile; la nostra attenzione è spesso limitata o circoscritta a ciò che ci suscita qualche interesse e il resto sfugge via, non si nota, si da per scontato. Ma è solo questo o è un’abitudine diversa a guardare le cose? La mente di una persona con un’esistenza che non credo facile come quella di un extra-comunitario che vende giornali al semaforo è forse più sgombra? Non sapevo trovare una risposta, mi sentivo colpita e incredula allo stesso tempo e da quel giorno decisi di passare di là non solo il sabato.

MARIA

Passa un po’ di tempo prima che io riesca a rincontrare Maria e la mia busta resta la sul sedile posteriore a ricordarmi, nei giorni seguenti, la mia ingenua speranza di portare appena un po’ di sollievo a qualcuno. Alla fine la trovo, la vedo dall’altra parte della strada, mi fermo e la chiamo. Lei si avvicina e io sorridente della mia speranza le do la busta spiegandole frettolosamente quello che c’è dentro. Frettolosamente, perché solo così ho l’impressione di poter giustificare a me stessa la miseria di quel contributo a una sofferenza tanto grande. Mentre prende la busta vedo nei suoi occhi lo stesso vuoto dell’altra volta e in un secondo capisco che una sigaretta le avrebbe fatto molto più piacere.
Quando ripasso, dopo qualche giorno piove ancora, Maria è ancora lì, scalza, col suo cappotto cencioso e bagnato. Spero quasi che non mi veda, spero di riuscire ad evitare il confronto con la mia impotenza, e così è. Ma non è solo quello che mi addolora. Dunque è vero: c’è un circuito di sfruttamento anche della povertà, un racket dell’accattonaggio. Non ci volevo credere perché non mi pareva possibile e invece è proprio così. Mi chiedo quanto cinismo ci voglia per impedire a qualcuno di indossare un paio di scarpe con questo freddo. Fanno meno impressione, rendono qualche euro in meno la povertà e la miseria vestite di un paio di scarpe?
Capisco allora che le sigarette erano l’unica cosa che poteva essere goduta lì, al momento, l’unica libertà che non potevano toglierle. Ma quando mi decido a comprarle è tardi. Tutte le volte che sono passata di là, non ho più visto Maria e le sigarette sono ancora nel cruscotto della macchina.

Quella notte non riuscivo a dormire; in quei giorni stavano approvando una legge che puniva l’esercizio della prostituzione in mezzo alla strada. Fare esibizione del proprio corpo per strada (solo per strada) era dunque reato. Mi sentivo bruciare dentro quei piedi nudi, l’idea che agli occhi del nostro perbenismo la miseria e il suo sfruttamento non provocassero alcuna indignazione mentre la nudità e il commercio del sesso sì, eccome.

A casa mia – dove nessuno fuma – la vista di un pacchetto di sigarette suscita un certo stupore. Così quando, aprendo il cruscotto, è comparso tutti si sono chiesti (senza avere il coraggio di chiedermelo) se per caso non mi fossi messa a fumare ma la domanda è rimasta vaga. “Che ci fa un pacchetto di sigarette in macchina?” Anche la risposta è rimasta vaga “Le ho comperate per offrirle ai poveri, se me le chiedono”. Solo allora mio figlio mi ha guardato come se avessi infranto una sua certezza. “Ma fumare fa male!!”. E così ho dovuto spiegargli che il fumo, in certi casi, non è il peggiore dei mali.

SHAMIR

“Ora passa più spesso di qui”. Ero sicura che avrebbe notato quel cambiamento; e infatti quel percorso mi era diventato più abituale a prescindere dal traffico. Shamir disse di chiamarsi quando glielo chiesi e lui invece mi chiese dove dovevo arrivare. Così gli dissi che insegnavo in una scuola di Pomezia. “Maestre sempre gentili con me!” Da quella volta mi chiama “maestra” e quando lo dice sorride con un sorriso gentile e un’aria un po’ infantile come se pensasse a qualche ricordo delle sue maestre in Pakistan, il paese da cui proviene.
Shamir è musulmano; quando si avvicina qualche festa più lunga del normale fine settimana, sembra dispiaciuto perché sa che le scuole chiudono e anche se lui sarà li al semaforo a vendere i giornali, io smetterò di passare per qualche giorno. Per esempio a Natale; gli spiego che è un po’ come per loro il Ramadam; mi dice che anche loro non vanno a scuola e non possono lavorare e fare nulla in quel periodo dall’alba al tramonto; allora la sua comprensione per la mia assenza sembra rafforzarsi.

SEVALIA

Ora che i miei passaggi sono definiti più dalla mia volontà che dall’abitudine, dal mio umore piuttosto che dal giorno della settimana o dall’intensità del traffico, mi sembra di trascurare un po’ Sevalia. Ma lui, al contrario di Shamir, non sembra accorgersi della mia irregolarità. E quando, dopo tanto lo rivedo, noto che, come i suoi occhi, anche il suo sorriso rivela una luce particolare. “Lo sai che mi è nata una bambina?” “Oh che bello!! Auguri! E come sta la mamma?” “Tutto bene” “E come l’avete chiamata?” “Aisha” “È un bel nome” dico “E com’è?” Sevalia ride orgoglioso “Bella come me!”

In quei giorni la stampa riportava la notizia della richiesta che il Governo avrebbe fatto ai medici dei pronto soccorsi e ai presidi delle scuole di denunciare i clandestini che andavano a farsi curare o a iscrivere i loro figli. Tutti gli stranieri sono ben informati su come evolvono le leggi che li riguardano nel paese che li ospita. Anche Shamir lo era.

Fu allora che gli chiesi se aveva un permesso di soggiorno e mi disse che no, lui era clandestino. Sapeva di questa notizia dei medici ma non sembrava preoccupato. Gli spiegai che molti medici avevano rifiutato l’idea di denunciare gli irregolari e che se aveva necessità poteva andare in ospedale senza preoccuparsi. Mi ringraziò e mi sorrise col suo sguardo sereno di sempre.

È passato un inverno e un’estate; a Sevalia è nata un’altra bambina; il sindaco di Roma ha emesso un’ordinanza che vieta la presenza dei lavavetri in città e nel giro di qualche settimana Sevalia non si è visto più.

Shamir c’è sempre ma quando all’inizio dell’estate si sposta e va a lavorare al mare, la mia strada resta più vuota, semplicemente torna a essere una strada. Allora capisco che queste piccole consuetudini mattutine mi lasciavano addosso l’impressione di uscire e avere un appuntamento anzi, proprio senza avere un appuntamento, mi sembrava di sapere che prima di arrivare a scuola, qualcuno, in qualche posto, in qualche modo, aspettava il mio passaggio.

Ora, mentre scrivo, so che era vero il contrario: ero io ad aspettare di passare per incontrarli, per sapere se stavano bene, per sapere se qualcosa era cambiato nella loro vita, se qualcosa stava per cambiare nella mia vita.


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