FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 20
ottobre/dicembre 2010

Nel cosmo

 

ANTICHE CIVILTÀ

di Rafael Courtoisie



Nel pozzo ci imbattemmo nelle ossa di un bambino di sette anni.

Scavammo un giorno in più e incontrammo una sepoltura indigena piena di reliquie. Sei scheletri in buono stato, adornati con vesti cerimoniali e oggetti funebri. Festeggiamo stappando una birra tiepida.

Proseguimmo gli scavi e apparve una stoviglia di fango, una ceramica costruita con la tecnica del “cordone o treccia di argilla”. La tecnica consiste nell’impastare una striscia molto lunga e arrotolarla fino a formare la base del recipiente, in spirale. Poi s’innalza il cordone: la spirale avanza formando le pareti che s’allargano per tornare a restringersi verso l’apertura. Il pezzo intero va cotto con fuoco di legna e con molto lentezza, stando direttamente sulla fiamma o appoggiandolo tra le pietre. Quando il pezzo è pronto quasi non si scorgono le giunture.

Lo scheletro apparteneva all’epoca precolombiana, almeno ottocento anni prima dell’arrivo di Colombo.

La prova del carbonio quattordici è molto imprecisa, quasi inutile in questi casi, perché gli intervalli di tempo risultano relativamente piccoli e l’errore, di conseguenza, è molto grande. La prova del carbonio quattordici è valida per i resti preistorici, quelli che datano migliaia di anni. È stata usata per determinare alcuni frammenti ossei che corrispondono alle prime correnti emigratorie che attraversarono lo stretto di Bering decine di migliaia di anni or sono, correnti che andarono occupando, in ondate successive, prima il territorio dell’America del Nord e più tardi, assai lentamente, quello dell’America del Sud. Erano le epoche del gliptodonte e degli uccelli giganti, predatori, rapaci e assassini. Questi animali piumati misuravano più di due metri di altezza, avevano piccole ali in relazione al volume e al peso corporeo, non potevano volare e correvano per la pampa in cerca di medi e grandi mammiferi con i quali nutrirsi. Erano epoche di carnivori violenti.

Seguitiamo a scavare.

Nel pozzo apparve un frammento di venti centimetri, miracolosamente conservato, di un tessuto indigeno. Sulla stoffa c’era un disegno di linee a zig-zag, simile a quello della greca nordica e centroamericana, molto comune nel continente, da Teotihuacán fino al Guatemala. E ancora più a Sud. La greca è la rappresentazione del fulmine e dell’onda, delle manifestazioni più violente del fuoco e dell’acqua, stilizzata in un tratto fermo e sintetico, schematico. Ha un valore magico e universale, poderoso. È un simbolo frequente nella cultura Tolteca, appare nelle architetture Olmeca y Teotihuacana e, secoli più tardi, nella cultura Maya e in quella Mexica. Verso il Sud la greca si ammorbidisce e raggiunge forme curve. Gli Incas la attenuano fino a renderla irriconoscibile, in un certo senso potremmo dire che la trasformarono in barocca, anticipando i tempi. Però in seguito riappare a Sud. Fino alle tribù più primitive, come gli Guenoas e gli Chanáe. Persino gli Charrúas, molto più rustici, facevano rozzi disegni che imitavano la greca, come se si trattasse di emulare in qualche modo l’archetipo primigenio e originale che secoli addietro era disceso fino a loro, trasmesso dai fratelli del Nord. La greca è denominatore comune del disegno americano. Fu abituale tra i popoli dell’Arizona. La tribù dei Navajos seguita tutt’oggi a usare una variante di quella figura, su coperte e tessuti cerimoniali. E nei suoi emblemi segreti.

Nella cerimonia del Mezcal, in Messico, e in alcune zone del sud degli Stati Uniti, la forma del fulmine, la greca, è presente per integrare il forte effetto della sacra pianta dell’agave.

Nella fossa trovammo anche conchiglie e lumache marine, ottenute sicuramente attraverso scambi con le tribù del nord. I residui perlacei apparivano perforati da un punteruolo fatto con una spina di pesce che si trovava insieme a loro. Sicuramente sia perline che ornamenti venivano infilati in qualche tipo di fibra vegetale per formare un collare la cui finalità religiosa o decorativa, o entrambe le cose, è facile da supporre.

Il bambino del primo ritrovamento era morto, in apparenza, per cause naturali. Nella prima esumazione recuperammo un giocattolo, una tartaruga intagliata in una pietra verde, tracce organiche che avrebbero potuto essere spighe di mais e un amuleto di alabastro.

Gli scavi continuarono ancora un’altra settimana. Esaurimmo i fondi assegnati dall’Istituto Nazionale di Antropologia, però il gruppo conservava la speranza d’imbattersi nel nucleo, nella parte più rilevante di quel cimitero indigeno, traguardo finale della nostra spedizione.

Realizzammo tre pozzi nuovi intorno alla prima tomba, ma senza grandi risultati. In uno dei pozzi scoprimmo i resti di un fornello con rami carbonizzati, quasi fossili, frammenti di argilla e qualche perla. Il ritrovamento era un chiaro indizio di un assiduo intercambio con le vicine popolazioni della costa.

La settimana successiva mi ammalai di malaria. Rimasi a letto tre giorni delirando. La febbre saliva e scendeva. Mi terrorizzavano i rumori notturni della selva. Nel deliro della febbre mi sembravano identici a quelli della città, ero convinto che nella boscaglia, al di là dell’accampamento, ci fosse una minaccia, qualcosa d’ignoto. Vedevo le zanzare atterrare sopra la mia pelle, succhiare il mio sangue infermo, tremante, e più tardi, atterrare delicatamente accanto alla branda e mettersi a parlare in lingue straniere. Erano idiomi antichi, che non potevo comprendere, lingue morte, perse nel tempo. Le zanzare arrivavano dal fondo dei secoli per raccontarmi qualcosa che non conoscevo.

Avevo il corpo in fase di germogliazione, pieno di punture. Un’eruzione cutanea mi ricopriva tutto il petto. I miei compagni bollivano l’acqua e vi aggiungevano due centimetri cubici di ipoclorito di sodio per ogni litro. Il sapore era schifoso, però uccideva l’amebiasi.

Il quarto giorno mi alzai. Avevo preso diverse pasticche di chinino. Mi sentivo debole. Un’amica mi aveva passato alcune foglie di coca che masticai lentamente. In bocca le rimescolai alla cenere. Mi sentii meglio.

In un quarto pozzo, più profondo di tutti gli altri, incontrammo qualcosa. Un manto nero di carbone vegetale ricopriva tutto il deposito. Fu necessario ricorrere a uno degli specialisti in biochimica della spedizione per rimuovere, con uno specifico detergente, quella patina nera. Per fare quel lavoro impiegammo tre giorni. Nel frattempo, via radio, giunse un messaggio dalla capitale che ci ordinava di sospendere il lavoro e ritornare immediatamente: i fondi erano terminati.

Quella notte il gruppo intero deliberò davanti a un gran falò. Per gli antropologi più anziani bisognava tornare subito indietro: era normale che ci ripensassero all’ultimo momento. Bisognava rassegnarsi e insistere, provare di nuovo il prossimo anno, quando sarebbe stato assegnato un nuovo budget.

Una giovane studentessa, sui vent’anni, disse di no. Era ancora tutta sporca di terra. Ostinata. Aveva faccia e jeans pieni di fango, schiettamente imbrattata, le mani spellate per via dell’incessante frugare nei resti. Alla donna si aggiunse un tecnico statunitense, inviato dall’Università di Berkeley. Io dubitai.

Il capo della spedizione restava in silenzio.

Gli antropologi più vecchi tornavo a ripetere: dobbiamo tornare indietro. Insisteremo l’anno prossimo: chiederemo assistenza tecnica, squadre speciali, più denaro.

La giovane sbottonò il camice da lavoro. Apparve una maglietta di cotone che le evidenziò i seni eretti. Mise una mano nel petto e la ritirò fuori. Nella mano aveva biglietti da cento dollari, la sua riserva per le emergenze. Li scagliò a terra per mostrarli a tutti e disse, come un proclama:

- È poco, pero sufficiente per scavare altri due giorni.

Il professore di Berkeley, spinto dall’esempio, si recò nella tenda da campo per rovistare nello zaino. Tornò con cinquecento dollari che depositò accanto alla donazione della ragazza.

- Other two days. Forty-eight hours. No more – disse.

Decidemmo di fermarci. Il giorno dopo inviammo un radiotelegramma all’Università e uno all’Amministrazione. Il professore di Berkeley sorrideva tutto soddisfatto.

Quella notte sognai la donna, la studentessa che aveva tirato fuori il denaro dal seno, in un gesto altruista e scientifico. Sbucava dall’oscurità come una nativa, mi si avvicinava vestita soltanto di piume, con il seno libero, alto e possente. Era quasi nuda, con la pelle abbronzata e danzava. Era una danza triste e solitaria, una danza di lamento che a me risultava incomprensibile. Mi baciò, ebbi una convulsione da terremoto e mi svegliai. La malaria mi regalò allora l’ultimo brivido, una scossa che avrebbe fatto saltare l’Empire State.

Masticai una tavoletta di chinino, tre aspirine e tornai a dormire.

Nel pozzo con il carbone non c’era nulla, soltanto alcuni resti di calce sotto lo crosta nera. Se una volta avevano avuto la forma e la consistenza d’ossa ora quei resti apparivano del tutto disfatti, da molto tempo, dall’azione dell’umidità.

Scavammo altri sei pozzi più che altro di sondaggio e scarsamente profondi, tutt’intorno all’accampamento, molto vicino alla prima tomba. E non trovammo nulla. Al settimo pozzo, arrivati a un metro abbondante, il professore di Berkeley gridò.

C’erano molti resti, disseminati e bianchi. Diversi teschi. Emergeva un omero. Osservai le zolle rimosse: non vidi alcun resto di vasellame. Nulla di ceramica.

L’americano era stupefatto.

La più giovane del gruppo portò spatole e pennelli speciali. Con molta cautela sollevò qualche osso da terra.

Per primo prese un pezzo molto piccolo, di una mano di adulto. Una falange.

Un radio e un cubito, attaccati.

Un omero.

Una scapola.

La terra era fresca. Dalle zolle proveniva un odore aspro e molto denso, come se quella terra fosse stata irrigata da un’acqua sotterranea, sconosciuta. Non era terra argillosa. Non c’era quasi sabbia. Era materia ricca di humus, di sostanze organiche recenti, di pietre sparpagliate qua e là: tesori duraturi e imprevisti, tra le ossa.

La più giovane gridò.

In mezzo a notevole impasto di scheletri, a un mucchio di corpi in disordine, c’era un cranio forato con sopra un paio di occhiali. La donna li sorresse in aria, bene in alto, con il braccio tutto disteso, ansimando.

La montatura era di tartaruga. Le lenti intatte, molto spesse, brillavano e lasciavano filtrare il sole del mattino.

Il capo della spedizione li afferrò con cautela. Con un panno pulito rimosse dagli occhiali le tracce di terra. Li sfregò, poi ci alitò sopra. Li sfregò di nuovo, come se dovesse usarli, come se con quelli dovesse leggerci un libro.

Guardò attraverso gli occhiali appena recuperati. Poi li appoggiò sul naso, se li aggiustò.

– Era miope – disse. L’uomo era molto miope. Probabilmente soffriva anche di astigmatismo.

Seguitammo a scavare. Scavammo tutto il giorno, disperati e con la voglia di capire. Seguitammo a scavare anche quando le nostre braccia era stanchissime. Anzi, scavammo di più. Scoprimmo una ventina di corpi, quasi tutti alla stessa profondità e della stessa epoca.

C’era un teschio molto piccolo, stretto e pieno di terra, come la radice bulbosa di una pianta di patate: la testa di un bambino.

Più tardi ne trovammo un altro. E un altro ancora. Tutti piccoli, tutti della stessa misura, pressappoco della stessa età. Della stessa epoca.

Alcune ossa erano spezzate. I crani avevano fori grandi come noci. Frantumati: l’osso frontale, le guance, talvolta i parietali.

In una mascella c’era un dente d’oro. Varie sostanze ricoprivano antiche carie. La più giovane di noi scoprì resti di stoffa, bottoni di plastica, l’etichetta di una camicia, si poteva leggere la scritta senza grosse difficoltà: LEVI’S.

Le misure antropometriche furono rigorosamente registrate. L’americano scattò foto e riprese una buona parte del processo di ritrovamento con una videocamera.

Venti centimetri più sotto, quasi confusi con il primo strato del giacimento, apparvero asce di pietra e punte di freccia. La figura d’una donna dai seni enormi intagliata nel basalto. Neolitica. Fibre vegetali, corni di cervo. E ancora teschi. Ossa. Anche queste rotte, fratturate, spaccate secoli prima. Vittime, sicuramente, di feroci scontri tribali.

La differenza tra i due ritrovamenti era all’incirca di mille anni.

Il tempo e il denaro si esaurivano.

Telegrafammo alla città. Qualcuno propose d’interrare tutto, in un’unica fossa.

Un giovane del gruppo stava realizzando un dottorato con una borsa di studio del governo. Per l’anno prossimo aveva pianificato di seguire un corso speciale organizzato dal National Geographic Society. Io dovevo tornare al Museo Nazionale, al mio ufficio lontano dalle gigantesche zanzare e dalla malaria. Mi sentivo ancora debole, tremante. Invece il tecnico di Berkeley appariva elettrizzato.

La più giovane, la stessa che aveva estratto denaro dal petto, iniziò a piangere. Le mancava la sua famiglia.

Sollevai un teschio. Lo fissai come Amleto. Era di sesso maschile. Giovane però maturo, l’arco sopraccigliare e le suture craniche indicavano almeno trent’anni di età. Aveva due buchi netti, ben ritagliati, nitidi: uno sulla fronte e l’altro nella zona occipitale.

Era stato un uomo forte. Chissà, forse anche coraggioso. Un cranio particolarmente grande. Lo collocai sul bordo della fossa.

Un altro teschio, il proprietario degli occhiali, era arrivato di sicuro a quarant’anni. Forse anche a cinquanta. Aveva un solo buco parietale, dalla parte sinistra.

I crani dei bambini erano tutti frazionati. In vita, le loro ossa non avevano avuto il tempo di saldarsi definitivamente. Un parietale si staccò dal resto per l’impatto. La base cranica era ridotta in frantumi.

Impiegammo mezza giornata ad aprire un pozzo a una certa distanza dal ritrovamento. E un’altra mezza giornata per riempirlo.

I resti di ceramica neolitica, il bambino di sette anni precolombiano, le collane di perle e conchiglie, la statuetta rituale d’alabastro e gli indizi d’una probabile influenza diretta di alcune tribù della Mesoamerica, tutto quanto, in una indecifrabile combinazione, si mescolò nel fondo umido e terroso, a un metro e mezzo dalla superficie. L’etichetta con la marca LEVI’S, i resti di blu jeans e la plastica.

Gli occhiali intatti d’osso di tartaruga, appoggiati su quel mucchio, scomparvero sotto la prima palata di terra.


Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini


Il racconto è tratto da Cadáveres exquisitos (Cadaveri eccellenti), Uruguay 1995, 2005.

rcourt@adinet.com.uy



Di Rafael Courtoisie vedi anche,
sul numero 3, il racconto
L’elefante di Ambato