FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 14
aprile/giugno 2009

Infanti

IL BAMBINO È PADRE DELL'UOMO

di Armando Santarelli



Oggi sono arrivati in fila, uno dopo l’altro, come se si fossero messi d’accordo. È entrata per prima l’avvocatessa rampante, bella, vestita di tutto punto, non un capello fuori dalla ciocca lucida e azzimata. È brava professionalmente, è simpatica e cordiale, parla molto ma sa ascoltare, insomma sa stare al mondo. Ha circa trent’anni, è sposata, e penso che sia un’ottima moglie. Sarebbe, ne sono convinto, anche una madre amorevole e responsabile.
Sarebbe... perché quando il discorso è uscito dalle incombenze giurisprudenziali, e ho azzardato quella domanda, ha risposto come tutte le altre, come le decine di colleghe in carriera che incontro ogni giorno nella cancelleria del Tribunale: “Un figlio? No, per adesso no, non se ne parla. Vedremo... la vedo un po’ difficile, ma vedremo.”
“Senti”, le dico rispettosamente, ma con fermezza, “hai tutto per essere una buona madre. Se non fanno figli persone come te e tuo marito...”.
“Hai ragione, hai ragione. Ma sai, oggi il problema devi portelo. Vedremo...”.
Non lo farà un figlio, lo so.
Quella risposta, quel “Vedremo”, rimarrà tale per mesi, per anni, e nella sua indeterminatezza, nella sua apparente superficialità, deciderà di una questione di enorme rilevanza: l’infanzia negata del nostro tempo, negata nel senso radicale della parola. Da questa persona, una donna brava, intelligente, equilibrata, una donna che stimo profondamente, non verrà alcun bambino, nessuna nuova vita.

Subito dopo è entrata la trentacinquenne. Gran bel personale, impermeabile di firma, borsa di cuoio, scioltezza di lingua e di modi. In udienza, una garanzia: non una parola superflua, solo ciò che riesce a entrare nelle orecchie del giudice per rimanerci...
Come sempre, viene educatamente a salutarmi: una nuvola di profumo e di abilità professionale, di femminilità e di sicurezza nei propri mezzi; finché non le chiedo del figlio, che ha tre anni. Lo ha concepito in extremis, chissà per quale miracolo, e anche il nome che gli hanno imposto è miracoloso: si chiama Rutilo, in onore delle origini ungheresi della famiglia di lei.
Alla mia domanda, dinanzi a me si materializza un’altra persona: “Ohhh, Rutilo... Poverino, è stato poco bene, ha dolori al pancino. Mi preoccupa, è così delicato...”.
Quando, qualche settimana fa, mi ha invitato a cena, ho capito tutto in un attimo: eravamo in quattro, io e mia moglie, lei e il marito, imprenditore di successo; e poi c’era Rutilo, il frutto del loro amore, un bambino bello e sensibile, fragile e spaesato; sì, spaesato a casa sua. Prima della cena, mentre conversavamo, ci ha interrotto una decina di volte con richieste assurde, benché la mamma lo avesse piazzato dinanzi al cartone animato preferito. A cena non ha mangiato nulla, e quando ha chiesto di andare a letto lo hanno accompagnato entrambi i genitori. Dopo, li ha richiamati quattro o cinque volte, e loro pazienti, svelti ad accorrere al suo capezzale, assentandosi anche per quindici minuti buoni. Finalmente, una svolta strana e inaspettata: il bambino ha detto ai genitori di andare dagli ospiti, perché dovevano stare con loro, non con lui.

Infine, ha fatto il suo ingresso trionfale l’avvocato quarantenne. Preparato, scaltro, vincente, barzellettista insuperabile, gran cultore di gustosi aneddoti forensi. Alza le sopracciglia solo quando gli chiedo della sua bambina, che ha sei anni. Fa la prima elementare, mi dice, ed è brava, precisa, ma si stanca con facilità, e si ammala troppo spesso. Aggiunge con un velo di tristezza che è preoccupato, perché comincia a occuparsi della sua educazione morale, e si accorge di quanto sia difficile. Vorrebbe farne una persona buona ma non stupida, sensibile ma non insicura, femminile ma con un carattere forte, colta ma anche pratica.
Mi limito a dirgli, con molta cautela, che queste aspettative (e le incertezze che ne conseguono) sono sicuramente percepite da sua figlia, col rischio di causarle proprio l’insicurezza che le vorrebbe evitare.
Replica che ho ragione, ma che non sa bene come comportarsi, che nei confronti della sua bambina si è scoperto un gran fifone.

Sono questi gli odierni rapporti con i nostri figli?
Parrebbe di sì: figli rimasti negli organi riproduttori, figli con una salute di ferro ma malaticci agli occhi dei genitori, figli mal educati a causa dei timori e delle incertezze di mamma e papà, troppo occupati a fare altre cose, a “costruirsi un avvenire più solido”.
Siamo cambiati, e di conseguenza sono cambiati anche i nostri figli.
Tutti i bambini hanno bisogno di sentirsi protetti e rassicurati dai genitori. Ma se i genitori li lasciano soli, e quando sono in loro compagnia tradiscono rimorsi, paure, insicurezze, allora sono i bambini che si premurano di rassicurarli. Sì; quando i fragili bambini di oggi capiscono di rappresentare un problema per mamma e papà, di essere la causa delle loro incertezze, reagiscono nell’unico modo possibile: sono essi a dare coraggio ai genitori.
Se un bambino trova nei genitori una perenne fonte di consolazione, continuerà ad attingervi per molto tempo, e non cercherà di trarsi d’impaccio da solo. Ma gli svelti e intelligenti bambini del nostro tempo capiscono subito che il loro grande papà, la loro amorevole mamma, non hanno la statura gigantesca che avevano loro attribuito, che i loro genitori non sanno risolvere certi problemi. Non è una ribellione, la loro, è una sostituzione; ed è per questo che li vediamo passare presto dalla dipendenza all’autonomia. Anche perché le persone che suppliscono nel miglior modo alle mancanze dei genitori, gli psichiatri che individuano in un attimo i problemi dei nostri figli, sono loro stessi, sono i compagni di giochi, il gruppo di cui fanno parte. Sono le persone che hanno scelto di avere accanto, i loro interlocutori più sinceri e più fidati. Quelli che usano i loro gesti e il loro linguaggio, con cui socializzano, crescono, assumono un’identità.

“Papà, perché non posso avere un fratellino?”
“Beh, si potrebbe, ma... non è facile oggi, e noi pensiamo che...”.
“Sì, papà, lo so, non abbiamo tanti soldi per fare un fratellino”.

Non è vero, noi sappiamo bene che ci sono altri motivi, ma intanto il nostro bambino ci ha dato una risposta, ha supplito al nostro balbettio, ci ha giustificato...
Siamo stressati, delusi, appannati dal caos, dal crollo delle religioni, dalle prospettive di un futuro cibernetico, dal post-umano. Ma ci sono i bambini a offrire soluzioni.
“I bambini ci curano l’anima”, scriveva Dostoevskij. Ma per l’uomo contemporaneo i bambini rappresentano molto di più: sono la nostra salvezza, una mano tesa sull’abisso del non senso della vita.
Perché sentite: credete che questa nostra esistenza possa avere ancora un senso quando persone intelligenti come i papà e le mamme avvocati che frequentano il mio ufficio rifiutano di trasmettere la vita (o di condividere la vita che hanno creato) in cambio di non si sa che cosa?
Forse non ci riflettiamo a sufficienza, ma è abbastanza spaventoso: sono una persona sana, non mi manca nulla, ho una casa, un lavoro, un marito, una bella vita di coppia: ma figli no, non ne voglio.
È il disagio dell’Occidente, il vero peccato del nostro tempo, un peccato mortale. Perché senza la prole, senza la trasmissione della vita, siamo destinati a morire, a morire non solo culturalmente e moralmente, ma nel senso biologico della parola.
Ci preoccupiamo, giustamente, di perpetuare valori come le tradizioni, la storia, la cultura: ma a chi dobbiamo trasmetterli? Chi può recepirli e salvarli se non la creatura che respira sin dal grembo insieme a noi, che imbocchiamo e baciamo, accudiamo e informiamo, che ci ama e amiamo dell’amore terreno più puro?
Sì, i bambini sono la nostra unica speranza.
Oggi più che mai, grazie alla vita che porta dentro, al suo cuore generoso e incorrotto, il bambino è il padre dell’uomo.


armando.santarelli@inwind.it