FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 14
aprile/giugno 2009

Infanti

ASCOLTARE
una rubrica per le orecchie

di Federico Platania


Da “Buzz Buzz Buzz” a “Doo Dah Doo Dah”
Breve storia dell’infantilismo nella musica popolare


Una vena d’infantilismo percorre da sempre la storia della musica popolare, ovvero di quel grande ambito musicale che non può essere ricondotto ai due macrogeneri della classica e del jazz (mi perdoneranno i lettori se faccio fatica sia a chiamarla musica “leggera”, aggettivo che mi è sempre sembrato ingeneroso nei confronti di un’arte così capace di descrivere le umane sorti, sia a usare l’etichetta di comodo “rock”, inadeguata, essa sola, a restituire il senso del tutto).
Una vena d’infantilismo, si diceva. E la troviamo fin dall’inizio, nel rock’n’roll delle origini, nella musica doo-wop, dove la rivoluzione estetica del fenomeno veniva stemperata da titoli più adatti a filastrocche per bambini: Buzz-buzz-buzz degli Hollywood Flames (1957), Rama Lama Ding Dong degli Edsels (sempre nel ’57), Zoom Zoom Zoom dei Collegians (1958), Lollipop Lollipop delle Chordettes (stesso anno), Papa-Oom-Mow-Mow dei Rivingtons (1962).

Onomatopee, nonsense, allitterazioni. Una predilezione per l’effetto anziché per il contenuto (una filosofia che sarebbe stata ripresa circa venti anni dopo con il filone punk, altra grande corrente di matrice adolescenziale nella storia della musica popolare, dove il criterio guida era, in parole povere, chissenefrega della tecnica, quello che conta è esprimersi).
A mano a mano che ci si inoltra negli anni ’60, con l’affermazione del movimento hippy e del flower power, anche l’immaginario estetico-musicale confina sempre di più con i caratteri della vivacità e della semplicità, da sempre propri dell’universo infantile. E così, i contenuti “adulti” di amore libero, liberazione, emancipazione, pace universale vengono veicolati da canzoni orecchiabili e copertine coloratissime. Sono gli anni, per capirci, in cui i Beatles si incarnano anche in film a cartoni animati e se ne vanno in giro su un sottomarino giallo.

Negli anni Settanta la musica popolare mette la testa a posto. Sono gli anni d’oro del progressive rock, una forma da psicanalisi di “invidia della musica classica”. E allora ecco che i “semplici” accordi di chitarra lasciano spazio a virtuosismi di pianoforte, ma la vena infantile sopravvive e si ricicla in altre forme. I grossi fiori colorati delle copertine psichedeliche del decennio precedente li ritroviamo, ad esempio, intorno alla testa di Peter Gabriel, leader-cantastorie dei Genesis, con canzoni a base di fiabe vittoriane e sinistre ninne-nanne.

Del resto tutta la corrente progressive strizza l’occhio alla narrativa fantasy. E parallelamente al progressive si sviluppa la scuola di Canterbury, con artisti come Caravan, Soft Machine, Hatfield And The North, Kevin Ayers. A proposito di quest’ultimo, impossibile, in questo excursus del bambinesco in musica, non citare la giocattolosa copertina del suo capolavoro Joy Of A Toy.

Del punk si è già detto. E siamo presto agli anni Ottanta. Qui l’infantilismo diventa strutturale. Sono gli anni di plastica, dell’effimero, del non-pensiero. Un giudizio eccessivamente impietoso (in quest’epoca di superficialità si sono formati gruppi di indubbio spessore: U2, Cure, Depeche Mode) ma, volendo generalizzare, calzante. Ed è proprio in questo decennio che si afferma una delle icone pop dell’epoca, Michael Jackson, che nel 1988 dà forma al suo sogno di bambino miliardario mai cresciuto. Neverland, una fiabesca casa parco giochi di dieci chilometri quadrati, il cui nome rimanda chiaramente all’Isola-che-non-c’è del Peter Pan dello scrittore James Matthew Barrie, altro artista-“ragazzo che non voleva crescere”.

Infine, in tempi più recenti, i generi dance e techno useranno spesso filastrocche per bambini come pretesto per le composizioni musicali. Così come persisterà l’immaginario dei giocattoli e dei cartoni animati in molte canzonette di fine millennio: Barbie Girl dei danesi Aqua (1997) o i dischi dei loro connazionali Cartoons, tra i cui brani spiccava Doo Dah.

Doo Dah. Doo Dah. Di nuovo: allitterazioni, nonsense, onomatopee. Del resto, sembra che quando Tristan Tzara scelse il nome per il movimento culturale alla cui fondazione aveva partecipato, il dadaismo, si ispirò al verseggiare cantilenante dei neonati: da da...

 

federico.platania@samuelbeckett.it