FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 8
ottobre/dicembre 2007

Tracce d'Europa

L'EUROPA OBLIQUA DI JACQUES DARRAS

di Viviane Ciampi



Pregusta montagne dal pendio bilingue; dorme d'istinto in un letto "geografico"; converte gli euro in "eurose"; ama le mappe dove incamminarsi nel provvisorio, dove pare inutile - di frontiera in frontiera - piangere sugli inni versati.
Quand'era bambino sua nonna aveva l'abitudine di elencargli tutti i dipartimenti di Francia per farlo addormentare. Spesso, i dipartimenti corrispondevano a nomi di fiumi talvolta buffi, talvolta maestosi. Per il piccolo Jacques, le attenzioni della nonna si trasformavano in qualcosa di più che un semplice gioco mnemonico o una ninna nanna: probabilmente sognava di diventare egli stesso fiume che scavalca barriere e steccati, ben lungi dal volersi fermare alle porte dei Paesi limitrofi.

Col crescere, la poesia germogliava in lui insieme alla pulsione inarrestabile di allargare i confini della lingua francese che - cosa inconsueta per un Francese doc - gli stava diventando troppo stretta. Ora le sue aree poliglotte lo portano in un "lontano relativo" in quanto quel "lontano" possiede il volto di una realtà ancora traballante chiamata Europa.
Perché lo sa bene Darras, che anche quando si abbattono le frontiere, le cicatrici mentali restano. Finisce che non si può neppure "sbucciare una poesia senza piangere". A proposito, "sbucciare una poesia", in senso darassiano, non vorrà dire tradurla? Quale atto d'amore più grande per un poeta se non quello di andare incontro all'altro, francescanamente, fino a volersi fondere nel suo intimo linguaggio?

Tra le molte manifestazioni del talento di Jacques Darras va notato l'impegno corporeo come "marchio di fabbrica" durante le pubbliche letture. Sarebbe più semplice etichettarlo come "performer" ma non è così in quanto senso e suono non divorziano mai, nei suoi versi.
Eppure chiunque si trovi ad assistere ad una delle sue "galoppate verbali" ne rimane coinvolto: ricorda, in un certo senso, il Jacques Brel de Les Flamandes, con quel crescendo irresistibile, delirante d'ironia e sarcasmo. Del resto, il nostro poeta usa parole come "houblon, Escaut, soupe", che ricorrevano spesso nell'immaginario poetico del suddetto autore-interprete (belga di nascita ma francese d'adozione).
Immaginatelo, dunque, il Nostro: batte il tempo con i piedi, arrotola la erre, disegna le parole con la mano, a tratti canta, e i versi sono palline da flipper che rimbalzano da una parte all'altra come non volessero fermarsi mai. Perché, lapalissianamente «parlare è con la voce». Una voce che seduce, esplora, profetizza per puntare su un'avventura collettiva chiamata Europa.




INTERVISTA A JACQUES DARRAS

Molti scrittori non amano viaggiare, eppure amano scrivere di paesi lontanissimi. A quale categoria di viaggiatore pensa di appartenere?

Sono un viaggiatore recente. Relativamente recente. Da giovane ero sedentario. Lasciare l'assisa del mio suolo mi dava il capogiro. Come avessi dovuto assimilare tutti i sali minerali dello spazio natale prima di spiccare il volo. Essere nato nel 1939, al margine di due mondi, crescere in piena Guerra Fredda sotto la minaccia di una polverizzazione imminente dovuta all'atomo, ti confinava, quasi necessariamente, alla polvere locale. Mi sono liberato delle mie località man mano che il mondo si liberava in proprio delle sue promesse d'annientamento. Così, ho convogliato il mio catasto poetico fino ai miei piedi. A segnare la cesura fu l'esilio professionale di due anni in Scozia per imparare l'inglese. Quando tornai dall'oltremanica avevo acquisito una nuova lingua e un senso nuovo dello spazio. Mi ero per così dire tradotto, trasferito e sistemato in un altro cantone di me stesso. Da allora, rincuorato circa le metamorfosi dell'identità, non ho più smesso di spostarmi. Il poema che scrivo - La Maye - nome del mio fiume nativo, è la storia dell'infinita migrazione nella quale sono entrato. Questa precoce confidenza della terra, questa scansione d'un parlare-sognare-parlare che ho per prima cosa riprodotto su alcuni ettari di una pianura del nord della Francia, la sto adattando oggi senza problemi a Tokyo, Mosca o Città del Messico. Ma non dimentico mai, in cuor mio, che potremmo un domani, nel caso di un'improvvisa crisi energetica, essere condannati a una perfetta immobilità. E a dover ritrovare l'Universo in un catasto minimale.

Lei parla spesso di sé come di un «viaggiatore sentimentale».

È il romanziere anglo-irlandese Laurence Sterne ad aver inventato l'espressione «viaggiatore sentimentale» in un breve romanzo pubblicato l'anno stesso della sua morte nel 1768. Come pastore dedito a una curia nello Yorkshire, Sterne era un viaggiatore tanto incallito quanto bisognoso di sole mediterraneo per i suoi polmoni - il solo trattamento allora riconosciuto della tubercolosi. Il suo "Viaggio", tuttavia è rimandato fino all'infinito delle digressioni a causa dei suoi "sentimenti", col risultato che, non andando mai oltre Parigi sciupò la maggior parte del suo tempo insieme al suo stesso cuore nelle diligenze e le locande disseminate sulla strada tra Calais e Amiens - strana combinazione - sullo stesso tratto della strada che mi vide nascere. L'ironia, la disinvoltura, l'intelligenza impertinente di Sterne mi mandano in visibilio. In Tout à coup je ne suis plus seul, il mio ultimo libro sottotitolato "roman chanté compté" (romanzo cantato contato, ndt), di cui avevo in origine progettato che il titolo fosse Un nouveau Voyage Sentimental, mi sono appropriato della sua maschera e ho inflesso il suo itinerario a partire da Arras, verso Aix-la-Chapelle e Rotterdam, costringendolo a una riflessione amorosa europea che non deriva da un dongiovannismo pre-romantico bensì da una convinzione che va oltre gli squarci della modernità.

Lei dice di essere un «europeista convinto». Che cosa può convincere un francese a fondersi nell'Europa?

In effetti il problema esiste, tanto più che la risposta negativa dei francesi al progetto di Costituzione europea è quantomeno sconcertante. Io stesso ho fatto dei passi avanti in direzione del mio europeismo. L'ho riflettuto e argomentato. Ne ho scritto. Sono stato probabilmente il primo a sostenere, in Francia - i giornali me ne sono testimoni - il mio rifiuto di come è stato redatto in modo scandalosamente piatto e banale il preambolo della suddetta Costituzione da parte di Giscard d'Estaing, comparativamente alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo oppure alla Dichiarazione d'Indipendenza americana. È evidente che un testo non uscito dall'entusiasmo cosiddetto popolare non coinvolgerà mai nessuno.
Ma, lei dirà, che cosa c'entra con la poesia? C'entra, eccome, in quanto credo - desueta immagine romantica - la poesia capace di far giurisprudenza. Dante, Goethe, Hugo, furono dei legislatori. L'Europa che è la prima realtà storica ad aver superato le sue guerre intestine senza per questo ritrovarsi in posizione imperiale, è alla vigilia di una scoperta politica di prima grandezza. Presa da vertigine a causa della sua attuale posizione s'inciampa tuttavia sui propri fantasmi. Quello principale? La lingua! Non concepisco che un poeta europeo dei giorni nostri possa accontentarsi del suo "cantone" linguistico. Tra l'altro sono decisamente ostile a tutti gli autonomismi fiamminghi, corsi o catalani che s'irrigidiscono nel loro patriottismo minoritario. Essendo nativo della Picardia, perciò alla frontiera geografica e storica di tutte le Europe antiche, proclamo la mia porosità transfrontaliera e plurilingue. Coltivo l'amore dell'altra lingua facendo entrare - pur se in dosi minimali - il neerlandese, il tedesco, l'italiano, lo spagnolo e l'inglese in tutti i miei testi. Sono un "Viaggiatore sentimentale europeo". Un Erasmo sterniano. Stern und sterne.

In una delle sue poesie ha parlato degli inni. Si ha l'impressione che questo argomento la solletichi e nel contempo la infastidisca. Voleva forse mettere in scena la sua avversione nei confronti del campanilismo?

Nel libro Moi j'aime la Belgique! (Edizioni Gallimard, 2001) affermo, effettivamente: «detesto gli inni nazionali e mi detesto ancora di più di piangere quando li ascolto». Le nostre effusioni patriottiche sono purtroppo incontrollabili.
Possibile che non possiamo avere effusioni poetiche paragonabili?
Bisogna riconoscere che la politica sfocia, il più delle volte, in cattiva poesia sentimentale, ed è addirittura sentimentale in ogni sua parte perfino nella sua crudeltà. Ragion per cui concepisco la poesia soltanto umoristica e ironica.

Perché i fiumi, gli affluenti, i paesaggi brumosi l'attirano più dell'azzurro del Mediterraneo?

Il cielo, a Nord, è un personaggio, un accadimento del mondo, un enigma divino. Più di tutto segnala, specie nella pittura, l'accadimento della sfumatura. A Nord il cielo protesta contro il Cielo, la luce gioca con la luce nell'incertezza intima in cui noi, i terrestri, ci troviamo rispetto a Dio. Non vi è in questo nessun dogmatismo agostiniano (Algeria) né tomistico (Puglia) né gnosi manichea (Catari). Gli olandesi che erano calvinisti estesero la loro temperanza sull'Inquisizione blu degli Spagnoli. Potrei moltiplicare all'infinito gli esempi della mia cattiva fede. Si rassicuri, ho cominciato con un amore smodato dell'Italia risuscitato recentemente a Genova dopo una lunga parentesi professionale anglosassone. Essendo europeo, sono colpito dalla simmetria attiva, da ogni lato della Francia, delle città fiamminghe e italiane: Siena e Bruges, Anversa e Genova, Gand e Milano. Ecco perché concepisco la mia Europa obliqua, e spingo con tutte le mie modeste forze sull'asse verticale francese affinché prenda l'inclinazione magnetica della bussola.

Ritiene che vi sia un altro poeta paragonabile a Dante?

So benissimo che ponendomi questa domanda lei vorrebbe magari sentirmi dire che Dante è incomparabile. Be', lo dico: Dante è incomparabile. Con ciò, John Donne l'Inglese non è mica male, nel suo strappo tra il cattolicesimo che abbandona e l'anglicanismo (luteranismo inglese di stato) che si trova costretto giocoforza ad abbracciare. Questo contemporaneo di Shakespeare, di Harvey e di Cartesio è un aristotelico del corpo che ama e soffre, gioiosamente iconoclasta degli idoli platonici. Tornando ai tempi nostri non vedo che Whitman il Newyorkese ad avere intuitivamente viaggiato tanto lontano nel Cielo quanto Dante il sapientissimo.

Il mondo sta dilaniandosi. Eppure viviamo un'epoca in cui tutto sembrerebbe spingerci alla facilità di comunicazione, all'incontro verso l'altro. Come uomo, come poeta, penso che tutto ciò la sconvolga...

Non dimentichiamo che la comunicazione è prima di tutto un'industria sottoposta a concorrenza, dunque a rilanci continui dell'offerta, il che ci propone una superfluità di beni diventata superficiale per ripetizione. Si allinea in ciò sul funzionamento della pubblicità.
Credo che gli artisti del linguaggio, i poeti in particolare, farebbero molto meglio nel loro stesso interesse e forse per tutta l'umanità a riflettere circa un codice deontologico del buon uso della comunicazione. A rischio di non suscitare più - come forma d'arte - che delle "negazioni post-dadaiste superficiali" dei codici commerciali in vigore. A condizione, beninteso, che non abbiamo definitivamente scelto di preferire il non senso rispetto ad ogni altra forma di senso.


L'intervista completa a cura di Viviane Ciampi è apparsa sul n° 4 del periodico di arte e cultura "Icaro".




LE PAYS AU BOUT DE MON JARDIN
di JACQUES DARRAS


Un pays est toujours plus que la somme de ses habitants.

Un pays est toujours la somme de ses rêves.

De ses habitants plus leurs rêves.

Au-delà de lui-même en permanence derrière l'horizon.

Il n'existe pas d'arithmétique nationale, il existe l'arithmétique approximative.

Déjà inventée qui se nomme " littérature ".

Les hymnes nationaux sont la littérature en peau de chagrin.

Vous prenez un drapeau vous essuyez une larme au coin de l'œil.

En Belgique, tout le monde prend le même mouchoir noir, jaune, rouge.

Cela tombe bien.

Je déteste les hymnes nationaux mais je pleure quand je les entends.

Je me déteste de pleurer quand je les entends.

Je me déteste d'être belge quand je rêve debout à la Belgique.

Heureusement, je ne suis pas belge.

C'est pourquoi je me mouche dans mon mouchoir individuel à grands carreaux.

Un mouchoir qu'on agite, plus ou moins sale parce qu'il a servi, peut suffire à faire un emblème de paix.

Pourquoi m'arrive-t-il donc de tant rêver à la Belgique ?

Parce que je suis français, que mon rêve de la Belgique est l'immédiateté de mon rêve le plus proche.

La Belgique commence, commençait au bout de mon jardin.

J'ai longtemps rêvé du jardin d'en face, d'au bout, d'au-delà l'horizon.

Enfant, le Nord m'attirait.

Le cadastre de mon village était disposé de telle façon que la partie nord était plus spectaculairement en pente, couverte de bois de bosquets.

Au Nord, il y avait un moulin de pierre à cheval sur deux cadastres.

Au Nord de mon cadastre, la terre faisait de petites vallées valleuses qu'empruntaient les lièvres, oreilles aplaties pour ne pas attirer l'attention des chasseur à l'automne.

J'aimais un Nord lièvre, Nord perdreaux, Nord couleur d'automne.

La Belgique, mon automne permanent, attitré.

Rien de nostalgique, là.

Non, il y a de l'aubépine dans les champs au printemps, ici comme ailleurs.

L'été se fait sentir sur le sable entre De Panne Knokke-le-Zoute comme ailleurs.

Bistre, rayé de bâches d'eau reflétant les nuages, mer verte et huileuse au large.

Belge des plages, j'eusse sans doute rêvé aux falaises de Douvres, du Kent.

Nous habitons la géographie, la part de la géographie que nous n'habitons pas effectivement, nous la rêvons.

Créatures d'espace, les enfants surtout, arrière-arrière-petits-fils de chasseurs à l'imagination lièvre.

Notre pays, la somme de nos fuites dans l'imagination, la somme de fois où nous avons fui poursuivis par les plombs de la réalité.

Je reprends la course encore une fois, épurée, abstraite, comme rêvant à elle-même à mesure qu'elle se court.

Je parlerai donc rêveusement de la réalité.

L'incompressible gloire nationale est faite du rêve des autres à son sujet.

Il y a des invasions multiples multiséculaires qui, sans bruits, invisiblement, viennent regonfler les rêves nationaux les uns des autres.

Pour ces invasions-là je ne connais qu'un hymne, le poème.

Le poème marché, le poème parlé, le poème rêvé.

Il y a toutes sortes de nationalités poétiques qui n'ont pas été répertoriées.

Ce sont chaque fois des nationalités d'emprunt.

Nous entrons dans un monde de nationalités d'emprunt, provisoires, clandestines.

Les vieux douaniers se crispent, reprennent du service, guettent le passage du lièvre, arme et larme à la bretelle.

Douaniers de l'automne, qui ne voient passer qu'un rêve, qu'une couleur rousse, qui ne voient rien passer, qui tirent au jugé, au hasard.

Quelle gibecière pour le lièvre poétique ?

Aucune, toutes sont faites de mailles bien trop larges pour retenir l'automne.

Je croise mon hétéronyme, hétéronome lièvre belge.

Il porte un drapeau français dans le regard qui est l'envers du mien.

Un drapeau de printemps, l'herbe française est tellement plus tricolore !

Nous nous ignorons superbement.

J'ai vu au passage sa carte d'identité, son passeport, le lièvre en question se nomme Henri Michaux.

C'est un lièvre de Namur que son cadastre ennuyait fortement.

Je connais bien l'église Saint-Jean à Namur.

J'aime Namur comme une curiosité, je ne suis pas sûr qu j'y vivrais, Namur est ville parfaite pour l'imagination.

Tous les hôtels s'y nomment Charles Baudelaire, vous entrez, vous devenez aphasique.

On ne vous demande rien, on vous donne une chambre.

Chambre avec Bergerie Louis XVI au chambranle, vous êtes aphasique mais pas sexuellement inerte.

Aphasie du haut simplement, pas du bas, rappelez-vous.

Traverser une frontière c'est immédiatement tomber dans la sexualité.

Voulez-vous une sexualité du Nord avec tapis en laine, douche forestière ou baignoire multipositionnelle ?

Charles choisit la Meuse comme baignoire, c'est un esthète, Monsieur Turner a déjà couché avec son cheval dans cette chambre.

Une écurie la Belgique ?

Une écurie picturale, basse-cour royale, ferme avec fumier fumure sur position automatiquement drôle.

Nous avons le purin surréaliste courant à tous les étages, j'arrive, j'arrive !

Qu'y a-t-il mais qu'y a-t-il ?

J'allais me noyer dans mon rêve, je suis nu dans de l'eau chaude, une femme est nue à côté de moi dans la même eau, je lui caresse la pointe du sein droit avec la paume droite, son téton se lève, elle met son bras autour de mon cou.

Aacchh ! ce que j'aime l'automne en Belgique.

 


IL PAESE IN FONDO AL MIO GIARDINO
di JACQUES DARRAS


Un paese è sempre di più della somma dei suoi abitanti.

Un paese è sempre la somma dei suoi sogni.

Dei suoi abitanti più i loro sogni.

Al di là di se stesso in permanenza, dietro l'orizzonte.

Non esiste l'aritmetica nazionale, esiste l'aritmetica approssimativa.

Già inventata, chiamiamola "letteratura".

Gli inni nazionali sono la letteratura in pelle di dolore.

Prendete una bandiera asciugatevi una lacrima all'angolo dell'occhio.

In Belgio, tutti prendono lo stesso fazzoletto, nero, giallo, rosso.

Bel colpo.

Detesto gli inni nazionali ma piango appena li sento.

Mi detesto di piangere quando li sento.

Mi detesto di essere un belga quando sogno ritto appoggiato al Belgio.

Per fortuna, non sono belga.

Perciò mi soffio il naso nel mio fazzoletto individuale a quadrettoni.

Un fazzoletto che si agita, più o meno sporco perché già adoperato, può bastare per diventare un emblema di pace.

Perché mai mi capita di sognare tanto il Belgio?

Perché sono francese, e che il mio sogno del Belgio è l'immediatezza del mio sogno più vicino.

Il Belgio comincia, cominciava in fondo al mio giardino.

Ho spesso sognato il giardino di fronte, del fondo, dell'oltre l'orizzonte.

Già da bambino, il Nord mi attraeva.

La mappa catastale del mio paese era disposta in modo che la parte nord rimanesse più spettacolarmente in pendio, ricoperta dalla legna dei boschetti.

A Nord, c'era un mulino di pietra a cavallo su due mappe.

Al Nord della mia mappa, la terra produceva piccole valli valleggianti scelte dalle lepri, orecchie appiattite per non attirare l'attenzione dei cacciatori in autunno.

Amavo un Nord lepre, Nord pernice, Nord color d'autunno.

Belgio, mio autunno permanente, accreditato.

Nulla di nostalgico, quaggiù.

No, c'è del biancospino nei campi in primavera, qui come altrove.

L'estate si fa sentire sulla sabbia tra De Panne Knokke-le-Zoute come altrove.

Bistro, rigato di teloni d'acqua riflettenti nuvole, mare oleoso e verde al largo.

Belga da spiaggia, magari avrei sognato i promontori di Dover, del Kent.

Abitiamo la geografia, la parte della geografia che non abitiamo effettivamente, la sogniamo.

Creature di spazio, soprattutto bambini, bis-bis-bisnipoti di cacciatori dall'immaginazione leporina.

Il nostro paese, la somma delle nostre fughe nell'immaginazione, la somma delle volte in cui siamo fuggiti inseguiti da pallottole di realtà.

Riprendo la corsa una volta ancora, depurata, astratta, come sognante se medesima man mano che si corre addosso.

Quindi parlerò trasognato della realtà.

L'incompressibile gloria nazionale è fatta del sogno degli altri a suo proposito.

Vi sono invasioni multiple multisecolari che, in sordina, invisibilmente, rimpinguano i sogni nazionali di ciascuno.

Per questo tipo d'invasione non conosco che un inno, la poesia.

La poesia camminata, la poesia parlata, la poesia sognata.

Vi sono nazionalità poetiche d'ogni risma che mai furono catalogate.

Si tratta ogni volta di nazionalità prese in prestito.

Entriamo in un mondo di nazionalità in prestito, provvisorie, clandestine.

I vecchi doganieri s'irrigidiscono, riprendono servizio, spiano il passaggio della lepre, armi e lacrime sulla bretella.

Doganieri dell'autunno, che vedono passare un sogno alla volta, un solo colore, il fulvo, che non vedono passare un tubo, che sparano nel mucchio, a casaccio.

Quale carniere per la lepre poetica?

Nessuno, tutti hanno maglie troppo larghe per imbrigliare l'autunno.

Io incrocio la mia eteronima, eteronoma lepre belga.

Porta una bandiera francese nello sguardo combinazione a rovescio del mio.

Una bandiera di primavera, l'erba francese è talmente più tricolore!

Ci ignoriamo splendidamente.

Ho sbirciato al volo la sua carta d'identità, il suo passaporto, la lepre di cui sopra si chiama Henri Michaux.

È una lepre di Namur parecchio tediata dalla sua mappa catastale.

Eccome se conosco la chiesa di Saint-Jean a Namur.

Mi piace Namur, così, come curiosità, non giurerei di volerci vivere, Namur è città perfetta per l'immaginazione.

Tutti gli alberghi vi si chiamano Charles Baudelaire, entra pure, diventi afasico.

Nulla ti si chiede, ti si sbatte in una camera.

Camera con bergerie, cornici Luigi XVI, sei afasico mica sessualmente inerte.

Afasico solo dalla cintura in su, non dalla cintura in giù, tienilo a mente.

Attraversare una frontiera è come infilarsi subito nella sessualità.

Volete una sessualità del Nord con tappeto di lana, doccia forestiera o vasca multiposizionale?

Charles, essendo un esteta, sceglie la Mosa come vasca da bagno, mentre il signor Turner ha già dormito con il suo cavallo in questa camera.

Il Belgio una stalla?

Una stalla pittorica, pollaio regale, cascina con concime spandicacàme su posizione automaticamente divertente.

Abbiamo il letame surrealista che scorre ad ogni piano, vengo anch'io, anch'io!

Che cosa c'è ma che cosa c'è?

Stavo per annegare nel mio sogno, sono nudo nell'acqua calda, una donna è nuda vicino a me nella stessa acqua, le accarezzo il capezzolo destro con il palmo destro, le si drizza il capezzolo, mi mette il braccio attorno al collo.

Atciuuu! Quanto mi piace il Belgio in autunno.


da Il paese in fondo al mio giardino, Ed. Liberodiscrivere, traduzione di Viviane Ciampi e Claudio Pozzani.




Jacques Darras

JACQUES DARRAS
Nato nel 1939 nel Ponthieu vicino alla Manica, compone dal 1988 un lungo poema in più canti, La Maye, dal nome di un piccolo fiume nel nord della Francia. Ha recentemente pubblicato un frammento del Chant VII, (Moi j'aime la Belgique! poème parlé marché, Gallimard 2001), il Chant VI Tout à coup je ne suis plus seul. Roman chanté compté (Gallimard, 2006). Dirige la rivista "in'hui" da lui creata ad Amiens nel 1978. È caporedattore del mensile nazionale di poesia "Aujourd'hui poème" che ha cofondato nel 2001. È docente emerito dell'Università di Picardia dove ha insegnato poesia anglo-americana. Ha tradotto Walt Whitman (NRF/Poésie, Gallimard), Malcolm Lowry (Grasset et Denoël), Ezra Pound (Flammarion), Samuel Taylor Coleridge (NRF/Poésie, Gallimard 2007). Inoltre, ha pubblicato due saggi, il primo sulla morte: Nous ne sommes pas faits pour la mort (Stock, 2006), il secondo sulla poesia di lingua inglese: Les îles gardent l'horizon, (Hermann, Paris). Ha ricevuto il Prix Apollinaire nel 2004 e il Grand Prix de Poésie de l'Académie Française per l'insieme della sua opera, nel 2006.


viviane_ciampi@fastwebnet.it